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Tag: successo

Design Thinking e Lean Startup: due approcci differenti con ampie possibilità di integrazione

Alcuni giorni fa Matias Honorato, startupper cileno founder di SlidePick, ha pubblicato nel suo blog un resoconto del recente incontro tra Eric Reis, autore di “The Lean Startup”, Tim Brown, CEO di IDEO e autore di “Change by Design” e Jake Knapp, partner di Google Ventures: la loro conversazione era incentrata sui concetti di Lean Startup e Design Thinking, ed era finalizzata a scoprire quanto i due processi possono convergere nella gestione di una startup consentendo di ottenere ottimi risultati.

Prima di tutto, Honorato riassume brevemente i due concetti in questione, servendosi delle parole dei due autori:

– Il Design Thinking è la capacità di pensiero integrato, finalizzato a fornire un’esperienza soddisfacente attraverso la partecipazione di tutti. In questo senso, è possibile affermare che il Design è un processo che attraversa le seguenti fasi: Understand – Observe – Point of view – Ideate – Prototype – Test.
Si tratta, quindi, di un processo basato sulla comprensione e l’osservazione dei fatti e dei punti di vista di ognuno, per poi procedere con l’ideazione e la costruzione di un prototipo da testare sul mercato.

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– L’approccio Lean Startup, invece, può essere rappresentato come un modello circolare, nel quale le tre fasi fondamentali sono: Build – Measure – Learn. Nel modello di Reis, infatti, lo startupper deve imparare ciò che i clienti vogliono realmente dal prodotto, basandosi su fatti reali, e non ciò che dicono di volere o che l’imprenditore pensa possano volere.
Il processo circolare di Lean Startup, quindi, passa dall’idea alla costruzione di un prodotto, prosegue con la misurazione dei risultati ottenuti sul mercato (raccolta dati) e infine con la fase di comprensione (Learn), per poi ripartire da una nuova concezione dell’idea basata sulla conoscenza dei dati.

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Basandosi sulle definizioni, a prima vista i due approcci sembrano totalmente differenti: sia per il modo in cui rappresentano il processo produttivo, sia per le attività che compongono tale processo.
Mentre il Design Thinking può essere visto come un processo per trovare soluzioni creative a problemi complessi e specifici per le esigenze dei clienti, l’approccio Lean Startup è una sorta di framework da utilizzare per startup che abbiano intenzione di sviluppare un’idea o una vision già esistente, per la quale sia già stata identificata una nicchia di mercato.

In ogni caso, seppure con queste differenze, gli approcci in questione si intrecciano su una base comune: entrambi possono essere definiti, come fa lo stesso Honorato, “Customer Centric Innovations”, ossia innovazioni incentrate sul cliente.
In tal senso, bisogna pensare ad ogni processo innovativo (che sia la costruzione di un’automobile da parte di una grande multinazionale, o una startup “low budget” nata in un garage) come ad una serie continua di test ed esperimenti, finalizzati a comprendere ed imparare dal mercato per modificare i nostri presupposti iniziali, modellando il prodotto per risolvere il problema di una specifica nicchia di clienti.

Inoltre, entrambi i processi servono ad evitare di proporre al mercato prodotti non desiderabili, di cui nessuno ha bisogno: si può dire che il motto alla base del Design Thinking e dell’Approccio Lean sia “Fail fast, succeed faster”, un continuo provare e sbagliare, per convalidare al meglio la soluzione, l’idea, il prodotto di una startup.

Una volta identificate le similitudini tra i due concetti, è possibile capire in che modo integrarli per ottenere i migliori risultati da entrambi: per farlo, occorre prendere la parte migliore di ciascun approccio e collegare gli elementi.
Secondo Jake Knapp (il quale ha spiegato che l’approccio integrato è quello utilizzato da Google Ventures, che prende il nome di Design Sprint), dall’approccio Lean Startup occorre prendere il processo di iterazione veloce e gli anelli di retroazione, legando il tutto alle valutazioni metric-based. Tutto ciò va poi collegato ai metodi di ricerca qualitativa utilizzati nel Design Thinking, per comprendere meglio come personalizzare il prodotto sulla base delle esigenze dei clienti.

Si ottiene così un nuovo approccio, che Honorato definisce nel modo seguente: Design Thinking + Lean Startup = “Thinking Startup”.
Naturalmente, l’autore del post avverte che questa non è una sorta di formula magica che assicura il successo di una startup: un approccio del genere va visto non come un processo di step consecutivi da seguire, bensì come un framework, un quadro di riferimento, all’interno del quale ogni startup deve compiere i propri passi e rischiare il successo o il fallimento.

In conclusione, l’integrazione tra Lean Startup e Design Thinking offre nuovi, importantissimi strumenti ad una startup che voglia sviluppare la propria idea e le proprie potenzialità di business: ma non assicura in alcun modo il successo, che in ogni caso dipende in larga misura dal team e dalle caratteristiche del mercato.

Il post originale di Honorato è disponibile qui: http://www.mhonorato.com/desing-lean-thinking-startup/

Napoli, 30/07/2014

Consigli alle startup: un imprenditore impara tanto dai successi quanto dai fallimenti

Con migliaia di startup in tutto il mondo a lavorare a nuovi prodotti, non c’è da meravigliarsi se il 75% delle nuove aziende fallisce. In realtà il fallimento delle startup ha anche un suo lato positivo, in quanto aiuta l’ecosistema globale: startupper e imprenditori possono infatti imparare tanto dai successi, quanto dai fallimenti. La cattiva gestione, il marketing inefficace e i problemi del team sono soltanto alcuni dei tanti possibili motivi per cui una startup fallisce.

E’ possibile che si sia fondata una startup con gli amici di sempre, che però non hanno competenze complementari, oppure che si sia fondata una nuova impresa con persone aventi competenze totalmente complementari tra loro, ma che non sono in grado di comunicare efficacemente all’interno del team“: questa è una delle possibili cause di fallimento di una startup, raccontata da Cassandra Phillips, founder di Failcon, dove gli startupper che hanno affrontato il fallimento condividono ciò che hanno imparato con altri founder.

In un recente articolo pubblicato su Entrepreneuer, il giornalista ed esperto di Digital Media John Boitnott raccoglie le storie di 4 startup che sembravano essere sulla strada del successo, ma non sono mai riuscite a decollare e alla fine sono incappate nel fallimento: vediamo cosa può imparare uno startupper da ciascuna di esse.

1) Gowalla

Milioni di persone hanno apprezzato questo social network location-based nato nel 2007 e fallito cinque anni dopo. I problemi hanno bloccato la crescita di Gowalla prima che riuscisse a raggiungere le masse: l’ingresso sul mercato di Foursquare ha infatto rubato la scena a Gowalla.

Il problema principale di Gowalla era il check-in troppo difficile da usare: Gowalla si stava imponendo come mobile web app prima che la tecnologia degli smartphone fosse abbastanza diffusa tra il grande pubblico, per cui l’entusiasmo degli utenti si è spento ben presto lasciando Gowalla nel dimenticatoio.

Nonostante un round di finanziamento da 8,3 milioni di dollari in fase di startup, Gowalla è stata acquisita da Facebook per 3 milioni di dollari: anche un’acquisizione può essere un fallimento.

Il consiglio che è possibile trarre dalla storia di Gowalla è quello di non competere mai con un gigante. Mettersi contro Facebook significa affrontare una strada in salita.
Inoltre, bisogna assicurarsi che la tecnologia sia diffusa abbastanza da consentire agli utenti di utilizzare il tuo prodotto. L’autore del post si chiede cosa sarebbe successo a Gowalla se fosse entrata sul mercato più tardi, quando la app mobile hanno guadagnato parecchio in termini di traction grazie alla maggior diffusione degli smartphone e all’avanzamento della tecnologia.

2) Pay By Touch

Nonostante un lungo elenco di investitori, questa startup che sfruttava le impronte digitali per i pagamenti mobile non ha mai raggiunto il successo. A causa di accuse di frode ed altri problemi legali, il founder ha dovuto dichiarare bancarotta a fine 2007. Nonostante avesse raccolto milioni di dollari in equity, il founder aveva troppe spese e troppi problemi anche per pagare i suoi dipendenti. Un motivo potrebbe essere che le persone erano troppo abituate ad usare le carte di credito e di debito per affidarsi ad una nuova tecnologia di questo tipo.

Secondo Boitnott, il problema di Pay By Touch sta nell’aver proposto una soluzione innovativa ad un problema inesistente: si tratta di uno dei problemi più comuni con cui va a scontrarsi una startup. A volte i founder credono che la loro idea, il prodotto, la tecnologia sia così “cool” e all’avanguardia che la gente deciderà di usarla: in realtà, perché un nuovo prodotto venga effettivamente utilizzato, occorre creare qualcosa di cui le persone non possano fare a meno. Oltre la metà dei fallimenti di una startup, secondo l’autore, sono imputabili a questa causa.

3) RealNames Corporation

Fondata nel 1997, consente agli utenti di Microsoft Internet Explorer di utilizzare un sistema di denominazione basato su parole chiave per registrare domini direttamente dalla address bar del browser Microsoft Internet Explorer. Tutto ciò senza dover appartenere a domini di primo livello, come “.com” e “.net”.

L’azienda ha raccolto oltre 130 milioni di dollari di finanziamenti, ma ha chiuso i battenti nel 2002 a seguito della decisione di Microsoft che ha reindirizzato le oltre 1 miliardo di pagine per trimestre di RealNames direttamente sul motore di ricerca MSN.

Il problema che ha portato al fallimento di RealNames è stata quindi la totale dipendenza della propria sopravvivenza dalle decisioni di un colosso del settore come Microsoft. Non bisogna mai far dipendere la propria società da qualcun altro.

4) Pets.com

Si trattava di una famosa aziendache vendeva on-line prodotti per la cura degli animali, in attività dal 1998 al 2000. L’azienda aveva effettuato investimenti milionari in campagne di marketing, tra cui un annuncio durante il Super Bowl. I founder erano convinti di poter raggiungere il successo grazie ad una nicchia di mercato.
Ma il grosso problema era il costo delle spedizioni, che erano troppo elevati, soprattutto per i prodotti di fascia di prezzo più elevata. Le vendite di Pets.com diventarono presto troppo complicate.

Il consiglio da imparare da questo fallimento secondo l’autore è che occorre essere sempre brutalmente onesti sui progressi della propria startup: molto spesso, infatti, i founder hanno paura di chiedere aiuto, o lo fanno troppo tardi. Le cose, invece, sarebbero molto più facili se si riuscisse ad essere più onesti fin da subito con se stessi e con il proprio team.

L’articolo originale è disponibile a questo link: http://www.entrepreneur.com/article/235028

 

Se sei un aspirante startupper, con un’idea imprenditoriale innovativa e con la voglia di iniziare la tua avventura nel mondo delle startup, puoi ricevere altri consigli e suggerimenti utili lunedì 14 luglio 2014: il CSI – Centro Servizi Incubatore Napoli Est ospita infatti l’evento gratuito dedicato allo storytelling e al networking per startup e imprese Tip & Tricks for startupper!

Per partecipare a Tip & Tricks for startupper basta registrarsi compilando il form disponibile a questo link: https://www.incubatorenapoliest.it/event/t-and-t-for-startupper/

Napoli, 07/07/2014

Consigli alle startup: quando si tratta di partnership, la scelta più giusta è seguire la regola “Gli opposti si attraggono”

Chris Klündt è founder e presidente di StudyBlue, un’app dedicata al collaborative learning che consente alle persone di raccogliere informazioni per poter padroneggiare qualsiasi argomento: nata come un progetto accademico, è oggi un’azienda con oltre 5 milioni di utenti.
Klündt ha recentemente pubblicato un post su Entrepreneur dedicato alle startup e, nello specifico, tema della scelta di un partner.

Convenzionalmente si è portati a credere che un buon team sia composto da persone con personalità simili e competenze complementari: in generale, poi, le persone scelgono di avvicinarsi a chi è simile a loro, a persone di cui sentono di poter aver fiducia.

Ma una delle regole base dell’innovazione è quella di tenersi sempre al di fuori della propria “zona di comfort”: per questo, la scelta di un business partner per una startup deve ricadere, secondo Klündt, su qualcuno che riesca a sfidare continuamente e in maniera costruttiva le nostre opinioni, qualcuno che ci porti a ripensare le nostre decisioni. Il punto è che il partner dovrebbe essere qualcuno in grado di espandere la nostra vision, non di confermarla.

Ecco perchè, per una startup, vale la regola secondo la quale “gli opposti si attraggono”: scegliendo come partner qualcuno che sia completamente diverso da noi, è possibile creare quella che l’autore definisce una vera e propria forza della natura all’interno dell’azienda, che può rendere la startup abbastanza forte da affrontare le varie sfide osservando i fattori in gioco da angolazioni differenti.

L’autore parte dalla propria esperienza personale con StudyBlue per motivare la sua idea e analizza i fattori che reputa centrali per scegliere il partner giusto per una startup, basandosi sulla convinzione che dovrebbe essere totalmente differente da noi:

1) Secondo Klündt, troppo spesso i giovani startuppers (soprattutto nel settore tech) tendono a sopravvalutare le proprie potenzialità e sottovalutano quelle dei veterani del mercato. La stessa StudyBlue è nata a causa della frustazione di Klündt nel riscontrare la scarsità di offerta nel settore delle risorse educative: all’epoca era ancora un ingegnere alle prime armi impegnato negli studi al college. Pochi anni dopo, Klündt ha incontrato Becky Splitt: una mamma con 15 anni di esperienza nel settore tech con la quale aveva ben poco in comune.

Nonostante i due fossero così diversi da formare un team davvero improbabile, oggi Klündt ammette che la scelta di fare di Becky Splitt il CEO di StudyBlue è stata la svolta per il successo della sua startup. In qualità di founder, il giovane Klündt sapeva come creare un buon prodotto, ma non aveva l’esperienza necessaria per affrontare le sfide che il mercato poneva. E’ stata proprio Becky Splitt a trasformare StudyBlue in una startup di successo.

Quindi, Klündt conclude che un giovane founder alle prese con una startup tecnologica dovrebbe scegliere come partner una persona con anni di esperienza, in grado di affrontare i problemi che l’azienda incontra giorno dopo giorno sapendo di poter contare sulle competenze e la professionalità acquisita negli anni.

2) Altro aspetto fondamentale da tenere in considerazione secondo Klündt riguarda i concorrenti: scegliere un concorrente come partner può essere un’ottima strategia, in quanto significa unire le forze per sviluppare un progetto migliore, con maggiori potenzialità di crescita rispetto a due progetti concorrenti.

Un esempio di come questa strategia possa risultare vincente è Ministry of Supply, un brand che fonde moda e tecnologia nato dall’unione tra due progetti differenti che avrebbero potuto essere in concorrenza sul mercato: i tre founder hanno deciso di fondere le proprie tecnologie e competenze in un unico progetto, ottenendo una startup di successo.

3) A volte, accettare di essere in disaccordo può essere la chiave per raggiungere il successo: impegnarsi in una partnership con chi la pensa in maniera differente da noi stimola il confronto e la messa in discussione, producendo effetti positivi sulla startup.

Ne sono un esempio Matthew Bellows e Cashman Andrus, rispettivamente CEO e CTO di Yesware: il primo è il tipico venditore, un sognatore spiccatamente ottimista, mentre il secondo è il tipico tecnico, problem-solver orientato alla pratica e al realismo. Le loro personalità opposte sono proprio il motivo per cui hanno deciso di lavorare insieme.

Collaborare con chi ha una prospettiva differente significa ritrovarsi a discutere su qualsiasi argomento, ma queste accese discussioni portano alla fine a prendere decisioni migliori: questa è l’esperienza del team di Yesware, sales e-mail service che conta oggi oltre 450.000 utenti in tutto il mondo e che ha raccolto capitali per 20 milioni di dollari da fondi tra cui Google Ventures.

In conclusione, Klündt sostiene che la scelta di un executive partner con background e punti di vista differenti ha sicuramente alcuni svantaggi, ma i pro superano di gran lunga i contro: la startup potrà infatti contare su una leadership dinamica, in grado di osservare le cose da una prospettiva a tutto tondo sul prodotto e sul mercato. Inoltre, la giusta quantità di attriti è una delle basi per il successo.

Per leggere il post originale di Klündt: http://www.entrepreneur.com/article/235029

Napoli, 27/06/2014

Consigli per startup: gli “Aha Moments”, cambiamenti di approccio fondamentali per affrontare la fase di commercializzazione

Ryan Gum è uno startup marketer originario di Sidney, che attualmente vive e lavora a Stoccolma: esperto di growth e online marketing per startup, ha un sito in cui raccoglie consigli e spunti utili per aspiranti imprenditori (http://ryangum.com/).
L’ultimo post pubblicato da Ryan Gum raccoglie otto situazioni che l’autore definisce “Aha Moments”: si tratta di otto cambiamenti di paradigma, ossia cambiamenti nell’approccio o nelle convinzioni, che egli ritiene fondamentali per uno startupper prima di arrivare alla fase di commercializzazione del prodotto.

Nel suo articolo, elenca gli otto momenti individuando per ciascuno di essi l’assunto di partenza, quello su cui normalmente ci si concentra, e di seguito il cambiamento utile, che identifica ciò su cui invece occorre concentrarsi quando la startup si prepara a introdurre sul mercato il proprio prodotto.

1) Ho bisogno di un MVP > Ho bisogno di un MDP

Il MVP (Minimum Viable Product) è un concetto basilare nella metodologia Lean Startup di Eric Reis: si tratta di una prima versione del prodotto, in possesso delle caratteristiche appena sufficienti per risolvere un problema/soddisfare un bisogno di base che permette al team di ricevere i primi feedback dai clienti. In sintesi, serve alla startup ad avere un prodotto caratterizzato dal minimo indispensabile per capire se esiste un possibile business.

Secondo l’autore, per passare alla fase di commercializzazione vera e propria il MVP deve però cedere il passo a quello che Andrew Chen (imprenditore seriale ed esperto di startup) definisce MDP (Minimum Desirable Product), ossia un prodotto centrato sulla prospettiva del cliente che crea un valore tale da soddisfare il suo bisogno e convincerlo a tornare (indipendentemente dalla redditività di tale prodotto per l’azienda).

Il MDP va quindi oltre il MVP: si tratta di un leggero cambio di prospettiva che, però, fa la differenza. L’autore, inoltre, suggerisce di costruire il MDP “pubblicamente”, ossia coinvolgere il più possibile i potenziali, futuri clienti nella fase di creazione del prodotto, ad esempio curando la comunicazione sui social. In questo modo si otterranno preziosi feedback per eventuali iterazioni e miglioramenti.
2) I miei primi 100 clienti arriveranno dal processo di scaling up > I miei primi 100 clienti arriveranno da un “combattimento corpo-a-corpo” 

“Combattimento corpo-a-corpo” è l’espressione scelta da Gum per spiegare la necessità di spendere tempo in contatto diretto con i clienti (di persona, al telefono, via e-mail) per capire esattamente come il prodotto/servizio della startup deve risolvere il problema o soddisfare i bisogni delle persone.

Questi contatti diretti devono essere portati avanti dalla startup prima di pensare ad un eventuale processo di scala: anzi, per arrivare al punto in cui è possibile scalare, occorre prima di tutto entrare in contatto con i clienti per assicurarsi che l’offerta della startup sia effettivamente adatta alle esigenze dei clienti.

Si tratta di un processo che richiede tempi lunghi e un lavoro mirato, ma, come afferma l’autore, tutte le aziende di successo hanno iniziato così: con un cliente alla volta.
Una volta contattati e soddisfatti i primi 100 clienti e possibile pensare a scalare.

3) Occorre concentrarsi sul marketing già dal primo giorno > Occorre concentrarsi sul marketing una volta individuato il Product/Market Fit

Trovare il Product/Market Fit, come affermato anche da Marc Andreesen (imprenditore di successo nel web, co-founder di Netscape e Ning), significa trovare il punto in cui si può essere sicuri di avere un buon mercato ed un prodotto/servizio per servirlo adeguatamente.

E’ solo da questo momento in poi che il prodotto inizia a “tirare” il mercato ed è quindi il momento a partire dal quale valga la pena investire in marketing: non avrebbe senso, afferma Gum, spingere un prodotto/servizio in assenza di un mercato adatto sul quale lanciarlo.

Prima di aver individuato il Product/Market Fit, infatti, le risorse investite in marketing non hanno prodotto da spingere, nè clienti da attrarre: è molto meglio investire in Customer Development, incontrando i clienti ed individuando il target di mercato per capire come definire un’adeguata value proposition.

4) Il successo deriva da una serie di vittorie > Il successo deriva dalla scoperta di ciò che non funziona, dopo una serie di tentativi falliti

L’idea generalmente valida secondo la quale il successo deriva dalla perseveranza è ancora più veritiera quando si parla di marketing: i migliori marketers, infatti, sono quelli che sanno essere umili.

Gum spiega, infatti, che 8 volte su 10 gli esperimenti e i tentativi di un marketer falliscono: ciò significa che bisogna continuare a provare, spingersi oltre, attraversare il fallimento per arrivare al successo.

Parafrasando Steve Jobs, l’autore del post afferma: Stay hungry, stay foolish, stay humble (umile).

5) Chi compone il mio target di mercato > Chi NON compone il mio target di mercato

Il consiglio è ben preciso: bisogna assicurarsi di capire bene chi NON è mio cliente e impegnare le proprie risorse per evitare di attrarlo.

Sicuramente è di importanza fondamentale, all’inizio di una startup, individuare il target di riferimento capendo qual è il cliente ideale. Ma altrettanto importante, una volta individuato il nostro target, è capire chi invece non è parte del target di riferimento.

Questo procedimento è infatti indispensabile per comunicare in maniera efficace: se si tenta di parlare a tutti, il messaggio non arriva a nessuno.

Avere come obbiettivo un target troppo ampio rende inefficace la comunicazione: ad esempio, è impensabile raggiungere con lo stesso messaggio tutte le donne di età compresa tra i 25 e i 60 anni. Se si tenta di parlare con tutte le componenti di questa fascia attraverso un unico messaggio, non sarà possibile comunicare efficacemente con tutte.

Per evitare spreco di risorse e impostare una campagna di comunicazione efficace, quindi, è fondamentale porsi, in fase di commercializzazione, la domanda: chi NON compone il mio target?
Inoltre, attrarre clienti che non sono parte del proprio target di riferimento può arrivare a danneggiare l’immagine dell’azienda, perchè non sarà facile soddisfare le richieste di coloro ai quali non è propriamente diretto il prodotto/servizio.

6) Il prodotto deve essere rivoluzionario > Prendi in prestito più possibile

Raggiungere il successo con una startup è già piuttosto difficoltoso: il consiglio dell’autore è quindi di non rendere tutto ancora più difficile pretendendo di partire da zero.

Un’innovazione deve essere disruptive, ma non necessariamente rivoluzionaria: sono molti i casi di successo di startup che hanno apportato delle modifiche e dei miglioramenti a prodotti/servizi già esistenti (Gum fa l’esempio di Uber).

L’innovazione deve essere incrementale, basata sull’iterazione e il continuo miglioramento: è molto più produttivo raccogliere ispirazione da fonti differenti e, in seguito, mettere insieme i vari aspetti di ciò che funziona per creare qualcosa di completamente nuovo.

Si tratta di ciò che Brian Harris definisce la “Formula Picasso”: trova tutti gli elementi che hanno avuto successo in altri casi, raccogli le parti migliori e applicali alle tue esigenze.

7) Ho bisogno di: strategia social, contenuti, pubblicità, PR, SEO, partnership, e-mail marketing, etc… > Scopri cosa funziona davvero e focalizzati su quello, scartando il resto

Oggi i canali di comunicazione sono così numerosi che si rischia di restare schiacciati, se si cerca di diversificare troppo profondamente la comunicazione: dall’e-mail marketing, a Facebook, a Twitter, a tutti i canali di comunicazione on-line è difficile riuscire ad essere presenti in maniera efficace su tutte le possibili piattaforme.

Una startup dovrebbe evitare di strafare: il consiglio dell’autore è infatti quello di individuare da dove provengono i segnali più forti, e di concentrare gli sforzi su quegli specifici canali (ne bastano uno o due per una startup alle prese con la fase di commercializzazione).

Una volta che i risultati iniziano ad arrivare, sarà poi possibile aumentare i canali di comunicazione spostando le risorse altrove.

8) Dobbiamo acquistare questo nuovo, incredibile STRUMENTO > Dobbiamo individuare e implementare un SISTEMA: gli strumenti consentono solo di eseguire ed automatizzare ciò che c’è già

Il team di una startup, di fronte ad un nuovo strumento (ad esempio un software gestionale), immaginano di trovare la soluzione a tutti i problemi: la tentazione di acquistarlo è forte. Ma Gum sostiene che questa scelta potrebbe rivelarsi un inutile spreco di risorse.

Gli strumenti sicuramente migliorano la vita e facilitano il lavoro, ma solo quando è già stato implementato un sistema di base: non ha senso acquistare, ad esempio, uno strumento per automatizzare il processo di marketing o di monitoraggio, se non c’è ancora un sistema/processo da automatizzare.

Il concetto è simile a quello secondo il quale i founders di una startup non dovrebbero assumere qualcuno per svolgere una certa mansione, prima che la mansione sia effettivamente reale all’interno dell’azienda.

In chiusura, Ryan Gum offre ai lettori un ultimo cambiamento di paradigma che è, a suo parere, il punto di partenza per chiunque voglia fondare una startup: bisogna passare da “Non è il momento giusto per iniziare” a “Non ci sarà mai un momento giusto: bisogna iniziare lo stesso”.

L’articolo originale da cui è tratto questo post è disponibile qui: http://ryangum.com/8-aha-moments-needed-before-marketing-your-startup/?utm_content=buffer51aa9&utm_medium=social&utm_source=twitter.com&utm_campaign=buffer

Napoli, 18/06/2014

Consigli per startup: cinque elementi fondamentali per costruire un business di successo

John Orcutt è CEO di Pie Digital ed esperto di startup tecnologiche in Silicon Valley, con oltre 25 anni di esperienza in grandi aziende americane. Recentemente ha pubblicato un articolo per il magazine on-line WeWork, incentrato sul tema dei segnali che lasciano trasparire che una startup è sulla buona strada per raggiungere il successo sul mercato.

Naturalmente esistono alcuni indicatori per misurare il successo di un business, come il dimensionamento del mercato o il rispetto della tempistica prevista nel business plan: ma oltre a questi indicatori, l’autore indica altri cinque elementi comuni che nella sua esperienza ha riscontrato nelle startup di successo.

1) Il talento giusto

In qualsiasi settore, per qualsiasi tipo di attività, il punto di partenza migliore è avere il talento giusto nel team. Ecco perchè è importante controllare attentamente il “track record of success” del candidato (valutando il CV prestando particolare attenzione ai risultati tangibili e misurabili ottenuti dal candidato), e valutando aspetti come l’energia, la passione e “la chimica”: bisogna tener conto anche della prima impressione, dell’intuito che ci consiglia se il rapporto lavorativo può avere successo.

Alcune domande utili da porre al candidato prima dell’eventuale assunzione possono riguardare, inoltre, la motivazione e la gestione del tempo (il suo impegno si ferma all’orario lavorativo, o utilizza il tempo libero per aggiornarsi e migliorare le sue competenze?). Infine, bisogna sempre valutare come la persona potrebbe integrarsi nel team e se sarà possibile avere un buon rapporto lavorativo a livello di squadra nel lungo periodo.

2) Un problema ben definito

Un’altro aspetto fondamentale per una startup è la ricerca necessaria a comprendere in maniera efficace il problema che si propone di risolvere. Bisogna raccogliere tutto ciò che gli utenti hanno da dire su come hanno provato ad affrontare e risolvere il problema, reclutare dei clienti per effettuare i test avendo cura di costruire un campione rappresentativo da un punto di vista geografico e demografico ed intervistare tutti.

In alcuni casi è utile incontrare di persona alcuni test users: l’esperienza “nel mondo reale”, quella che Steve Blank definisce con l’espressione “get out of the building”, è di cruciale importanza per una startup impegnata a creare una soluzione innovativa. Una volta effettuati i test è poi necessario effettuare un’accurata business analysis per assicurarsi che il problema sia abbastanza diffuso ed importante per i potenziali clienti, tanto da valere un investimento di tempo, denaro, risorse per risolverlo.

Ancora, bisogna occuparsi di definire le dimensioni del mercato: quante persone hanno quel problema da risolvere o obiettivo da raggiungere? E quanti sarebbero disponibili ad adottare il vostro prodotto o servizio come soluzione? Il mercato è grande abbastanza da sostenere il vostro sforzo? Una startup deve riuscire ad individuare un target ben definito di persone da raggiungere con il primo tentativo di release, per poi occuparsi in seguito di aumentare la dimensione del target di riferimento in fase di crescita.

3) Metriche chiare

Come si fa a capire se si è sulla strada giusta? Come è possibile misurare, confrontare, valutare i risultati? Per rispondere a queste domande, Orcutt fa riferimento alle metriche. Scrivere le metriche fin dall’inizio, già in fase di ricerca e poi di analisi, rappresenta il metodo migliore per una startup che ha bisogno di definire il problema e di identificare le migliori soluzioni oggi e in futuro.

Le metriche vanno quindi impostate fin da subito in maniera tale da assicurare alla startup che si stanno affrontando i problemi nel modo migliore per avere successo con il proprio business. Le metriche vanno utilizzate fin dall’inizio e per tutta la durata del processo, dalla ricerca alla produzione. Per le startup tecnologiche, inoltre, è facile costruire degli indicatori e degli strumenti di misurazione a basso costo o gratis, attraverso delle applicazioni ad hoc: una ragione in più per inserirle fin dall’inizio della vita di una startup.

4) Prototipazione rapida

Il consiglio è quello di procedere prima possibile a lanciare un prototipo sul mercato: per pivot, modifiche e aggiustamenti c’è sempre tempo. Utilizzare prima possibile i prototipi in fase di test consente alla startup di ottenere ottimi risultati in tempi rapidi.

I prototipi possono essere di vario tipo, più o meno realistici: semplici schizzi, immagini, mockup, simulazioni interattive. Il consiglio dell’autore è quello di investire un po’ di tempo per selezionare gli strumenti di prototipazione più adatti al proprio prodotto/servizio e alle proprie esigenze.

5) “Iteration is a way of life”

Per le grandi società già consolidate sul mercato, ciò che conta è seguire un piano di business ben collaudato raggiungendo i migliori risultati possibili a livello di execution. Per una startup, al contrario, il focus è sulla ricerca del miglior modello di business su cui basare la produzione e, in seguito, impegnarsi per scalare.
In una situazione di questo genere, quindi, la strada da seguire è quella basata su ciò che Orcutt definisce un “ciclo virtuoso” di iterazione rapida e miglioramento del prodotto. Il team deve muoversi continuamento in un processo fatto di testing, controllo delle metriche, ridefinizione e poi di nuovo testing.

Collegandosi a ciò che scrive Eric Reis in The Lean Startup, la strada giusta è quella di iniziare con un prototipo semplice per iniziare ad affrontare i dubbi sul se e come il prodotto deve essere costruito, se sarà sostenibile e quali sono i cambiamenti necessari da apportare per raggiungere tale sostenibilità.
Insomma, bisogna costruire prototipi sempre più dettagliati fino a giungere a un minimum viable product da lanciare.

In conclusione, Orcutt si dice convinto che sicuramente per una startup conta molto anche una buona dose di fortuna: ma le probabilità di successo possono sicuramente crescere grazie al lavoro del team e all’attenzione per i cinque elementi di successo presi in considerazione.

Il post originale è disponibile qui: http://www.wework.com/magazine/knowledge/5-signs-startup-right/

Napoli, 10/06/2014

Consigli utili per startup e imprese: come costruire la fiducia del cliente in un rapporto basato sulla comunicazione digitale

Anna Danés ha avuto una serie di esperienze lavorative in startup di diversi Paesi del Mondo (Asia, Europa, USA) prima di fondare Ricaris, un’azienda specializzata in internet services. Inoltre, è specializzata in materia di gestione del personale e lavora affinché le aziende possano creare un ambiente lavorativo migliore per i propri team.

Di recente, ha pubblicato un articolo su WeWork dedicato al tema “Una relazione digitale: come lavorare con clienti che non hai mai incontrato di persona”. Si tratta di un argomento di interesse per startup e imprese, in particolare per quelle che lavorano sulla base della realizzazione di progetti costruiti sulle esigenze di singoli clienti, come nel B2B: spesso, infatti, si i clienti non si incontrano mai faccia a faccia e la comunicazione si basa su e-mail o altri strumenti “a distanza”. Da queste situazioni nasce l’esigenza di imparare a costruire la fiducia del cliente, nonostante non ci sia mai stato un reale incontro.

Per costruire la fiducia con il cliente in una situazione di questo tipo il primo consiglio di Anna Danés è quello di raccogliere quante più informazioni possibili: anche se questo processo richiede del tempo, è di fondamentale importanza per dare al cliente la possibilità di avere fiducia nei servizi e nelle capacità dell’azienda. Può essere utile, una volta raccolte le informazioni, inviare al cliente una sintesi scritta (summary): ciò mostrerà la vostra attenzione e il vostro interesse per le esigenze del cliente.

In secondo luogo, è fondamentale definire chiaramente le aspettative e le fasi del progetto: occorre impostare e condividere con il cliente una vera e propria timeline nella quale siano ben focalizzate le aspettative di entrambe le parti.
Avere una chiara definizione delle aspettative delle parti coinvolte è la chiave per il successo di una relazione.
Inoltre, se ci si rende conto dopo i primi incontri di non poter soddisfare tutte le aspettative del cliente, è fondamentale proporre delle soluzioni alternative per consentire comunque il raggiungimento dei risultati desiderati su una distanza temporale realistica.

Ancora, è fondamentale alimentare il più possibile il rapporto con il cliente: non avendo mai avuto la possibilità di un contatto visivo e di una stretta di mano, occorre compensare tale mancanza concentrandosi il più possibile sulla comunicazione. E’ importante mantenere sempre un certo stile nelle comunicazioni, non spazientirsi di fronte a molte domande, ma anzi assicurarsi di aver risposto correttamente e chiedere al cliente un feedback.
Altri piccoli suggerimenti elencati nell’articolo a questo proposito sono:

– cercare di personalizzare il rapporto, senza sconfinare troppo nel privato, ma mostrandosi amichevoli;
rompere la “barriera digitale” con l’invio di un omaggio, con il logo dell’azienda, per inviare un messaggio positivo e che ricordi i valori aziendali;
– anche se la comunicazione è prevalentemente digitale, preparare un documento cartaceo sul lavoro svolto dall’azienda (come ad esempio un opuscolo) da inviare per posta al cliente;
coinvolgere il cliente chiedendogli feedback e pareri su come vorrebbero migliorare il servizio offerto.

Inoltre, secondo Anna Danés è opportuno impostare la comunicazione più adatta alle esigenze del cliente: in termini di mezzo di comunicazione (e-mail, telefono) e di frequenza dei contatti. Per raggiungere questo obiettivo è importante essere flessibili e riuscire ad adattarsi alle esigenze di ciascun cliente.

Infine, un suggerimento per i casi in cui qualcosa va storto: occorre giocare di anticipo, non aspettare che sia il cliente a scoprire che c’è stato un errore o che c’è un problema. Bisogna comunicarlo subito e con chiarezza, spiegando qual è il problema e che soluzione si propone, agendo in maniera proattiva: mai inviare semplicemente un messaggio in cui si informa dell’esistenza di un problema, occorre segnalare sempre la relativa soluzione.

Con grande probabilità, conclude Anna Danés, se la relazione con il cliente è stata costruita seguendo tutti i passaggi descritti ogni eventuale incidente potrà essere superato senza intaccare il buon rapporto con il cliente.

Per leggere l’articolo originale da cui è tratto questo post: http://www.wework.com/magazine/knowledge/digital-relationship-work-clients-youve-never-met-person/

Napoli, 04/06/2014

Trust Capital, gestione dei dati personali e fidelizzazione dei clienti: la situazione attuale e gli sviluppi futuri di un tema centrale per startup e imprese

Il Trust Capital rappresenta un tema di importanza cruciale per startup e imprese, che riguarda la costruzione del rapporto di fiducia con la clientela e si focalizza in particolare sul tema della sicurezza dei dati del cliente: un argomento di grande attualità, come dimostra un recente sondaggio citato da Blake Cahill (Global head of digital and social marketing per Philips) in un post pubblicato nei giorni scorsi dalla sezione “Big Data” di Lean Back, versione digitale dell’Economist Group.

Secondo il sondaggio, svolto in UK, il 78% dei clienti si dichiara diffidente riguardo al modo in cui le aziende utilizzano i loro dati personali e una percentuale ancora maggiore (82%) ritiene di avere scarso controllo su tale utilizzo. Cahill ritiene che preoccupazioni di questo genere sono in crescita a livello globale, anche se la maggior parte delle aziende tardano a riconoscere questa situazione.

In realtà, le previsioni sono quelle di un cambiamento nei prossimi dieci anni: entro il 2025, è altamente probabile che le modalità di relazionarsi tra brand e clienti cambieranno. I clienti saranno sempre più iper-connessi e avranno sempre maggior consapevolezza del fatto che le aziende raccolgono, utilizzano e monetizzano i dati personali.
Si prevede, inoltre, che entro il 2025 lo status quo sarà cambiato, nel senso che i clienti accetteranno man mano l’idea dell’utilizzo dei dati da parte delle aziende e le loro decisioni di acquisto terranno di conseguenza sempre più conto di questo aspetto.

Alla base di questo cambiamento e del processo decisionale dei clienti, secondo Cahill, ci saranno due driver fondamentali: la scelta e la consapevolezza. Da qui, la convinzione che le startup e imprese devono impegnarsi prima possibile nella costruzione del proprio Trust Capital.

Costruire un solido Trust Capital, infatti, significa dimostrare ai clienti che il brand rispetta e protegge i loro dati, li usa in maniera trasparente, dà la possibilità di scelta e controllo ed educa le persone a proteggere al meglio i propri dati. Cahill afferma che le aziende che si impegneranno nella costruzione del Trust Capital avranno maggiori possibilità di successo nel business degli anni a venire.

Inoltre, è importante tener presente che al momento la tecnologia per la raccolta di dati personali attraverso i software dei dispositivi connessi a internet si evolve più rapidamente della legislazione in materia: brand globali provenienti da aree geografiche differenti sono soggetti a regolamenti e normative differenti, a volte addirittura contraddittori: ciò non fa che accrescere la confusione dei clienti.

In assenza di leggi sulla privacy globali, scrive Cahill, è fondamentale, per costruire il Trust Capital, che startup e imprese si adoperino per mettere in pratica le migliori politiche sulla privacy, applicandole su scala globale: le aziende devono utilizzare e proteggere adeguatamente i dati dei propri clienti allo stesso modo in qualsiasi mercato.

Infine, le opportunità e i vantaggi derivanti dal costruire il Trust Capital per imprese e startup consentono di costruire con i clienti un rapporto equilibrato e duraturo, basato su un utilizzo intelligente, consensuale e responsabile dei dati. Il Trust Capital è quindi di centrale importanza ed ha un impatto fondamentale sulla reputazione complessiva delle imprese, fidelizzando maggiormente i clienti.

L’articolo originale da cui prende spunto questo post è disponibile qui: http://www.economistgroup.com/leanback/big-data-2/building-trust-capital/

Napoli, 08/05/2014

Un concorso dedicato alle migliori startup femminili: dal Gruppo MADE, il Premio Gemma 2014

Il Gruppo MADE, specializzato in consulenza imprenditoriale ed investimenti per startup e imprese, ha lanciato un concorso dedicato a startup al femminile: si tratta del Premio Gemma 2014, che offre a neo-imprenditrici ed aspiranti startupper la possibilità di beneficiare di percorsi di tutoring, consulenze e contributi per le prime fasi di vita dell’impresa.

Il Premio Gemma 2014 è aperto a nuove idee di business presentate da donne creative e con talento imprenditoriale: è possibile partecipare singolarmente o in team (che deve essere composto per almeno i due terzi da donne). Non ci sono limiti di età e la partecipazione è aperta a cittadini italiani ed europei.

Le idee per il Premio Gemma 2014 possono essere di qualsiasi tipo, purché abbiano la potenzialità di trasformarsi in startup di successo. Il concorso si sviluppa in quattro fasi:

1) Iscrizione: Entro il 30 giugno 2014 è necessario inviare una mail all’indirizzo alessandra.formenti@madeinvestimenti.it contenente il nome del progetto e i nominativi e contatti dei componenti del team e del referente. Contemporaneamente, o comunque entro e non oltre il 15 luglio 2014, occorre inviare allo stesso indirizzo i seguenti documenti: a) breve presentazione del progetto; b) business plan; c) piano economico/finanziario a 3 o a 5 anni; d) copia della carta di identità e del codice fiscale del referente.

2) Selezione: nel periodo compreso tra il 15 luglio e il 15 settembre 2014 la giuria (composta da tre donne imprenditrici, una avvocatessa, un giovane imprenditore, un giornalista e un professore universitario) selezioneranno i 10 migliori progetti che accederanno alla fase successiva.

3) Tutoring: questa fase partirà il 15 settembre per concludersi il 13 dicembre 2014, e prevede per ciascun finalista la possibilità di beneficiare di 6 ore di consulenza da parte degli esperti MADE (via skype o presso la sede di Milano). Inoltre, il weekend del 18/19 ottobre 2014 sarà dedicato ad una due giorni formativa intensiva dedicata ai 10 progetti finalisti che si terrà a Milano.

4) Evento finale: l’evento di premiazione si terrà il 13 dicembre 2014, con interventi di esperti del settore, giovani imprenditori e la possibilità per i finalisti di partecipare ad una sessione domande-risposte con i presenti. Inoltre, i 10 finalisti presenteranno i propri progetti alla Giuria e, dopo la premiazione, accederanno ad una sessione di networking.

I vincitori del Premio Gemma 2014 avranno diritto ai seguenti premi:

Primo classificato: 50 ore di consulenza più un contributo per la costituzione della società ovvero finanziamenti infruttiferi pari a 5.000 euro;

Secondo classificato: 30 ore di consulenza più un contributo per la costituzione della società ovvero finanziamenti infruttiferi pari a 3.000 euro;

Terzo classificato: 20 ore di consulenza più un contributo per la costituzione della società ovvero finanziamenti infruttiferi pari a 2.000 euro.

Il Regolamento del Premio Gemma 2014 è disponibile al seguente link: http://media.wix.com/ugd/7d311b_0cd080bf3cec4a12b2bb29c86686f10b.pdf

Per maggiori informazioni: http://www.madeinvestimenti.it/#!concorso/c7tc

Napoli, 29/04/2014

Come gestire la customer influence: la strategia social basata sul “4 Gears Model” di Geoffry Moore

Con lo sviluppo e la diffusione globale delle tecnologie digitali, il ruolo ed il comportamento dei clienti è radicalmente cambiato: grazie ai social media, le persone hanno accesso ad un numero molto più elevato di informazioni e hanno la possibilità di mantenersi in contatto in maniera più semplice ed immediata con familiari e amici rispetto al passato. Il risultato di questo processo, di grande importanza per le imprese, è che siamo in un’epoca che è possibile definire “the golden age of customer influence”.

Ne deriva la necessità per imprese e startup di adattarsi al meglio a questa nuova realtà, cercando di rispettare e sfruttare il grande potere che oggi è nelle mani dei clienti: il problema è che troppo spesso le aziende cercano di adattarsi ad una situazione totalmente nuova con metodi tradizionali, basandosi sul percorso strategico di acquisizione/monetizzazione.

Una strategia del genere è troppo semplice per l’attuale situazione in cui si trova il mercato globale: la soluzione per ottenere una strategia efficace e sostenibile può essere quella di applicare il “4 Gears Model” teorizzato da Geoffry Moore (autore di alcuni importanti libri sul tema dello sviluppo tecnologico e delle strategie di mercato, tra cui “Crossing the Chasm”).

Il modello di Moore fornisce infatti un modello affidabile per adattare le strategie imprenditoriali all’attuale social marketplace, in cui l’obiettivo strategico fondamentale che l’azienda deve perseguire è quello di costruire e “far girare” contemporaneamente i quattro “ingranaggi” previsti dal modello.

Il punto di partenza sulla base del quale Moore ha costruito il suo modello è, infatti, l’ampia diffusione dei social: grazie a questi strumenti, i clienti possono condividere un’enorme quantità di contenuti sul web. La strategia social implementata dall’azienda deve essere in grado di adattarsi a tale circostanza, cercando di trarne vantaggio: ciò significa che l’azienda deve guidare un percorso di creazione e crescita di una base di clienti fidelizzati, con i quali costruire delle relazioni durature.

Per ottenere una strategia di questo tipo, che sia efficace e sostenibile, non basta più (come accennato) limitarsi al modello acquisizione/monetizzazione: occorre implementare un sistema di quattro “ingranaggi” interdipendenti sui quali lavorare.
I quattro “ingranaggi” cui Moore si riferisce sono:

1) Acquisition: è il meccanismo che consente all’azienda di attrarre e mantenere nuovi clienti. Si tratta della leva “di partenza”, il primo “ingranaggio” su cui implementare l’intera strategia social. Inoltre, l’Acquisition va di pari passo con il secondo ingranaggio previsto dal modello, l’Engagement.

2) Engagement: è il processo che, in prospettiva, costruisce e mantiene viva la fedeltà a lungo termine della clientela.

L’Engagement è il primo passo per costruire relazioni con i clienti acquisiti, e lo scopo è quello di instaurare rapporti basati sulla fedeltà al brand: è un processo che richiede tempo e attenzione basato sulla reciprocità della comunicazione tra i clienti e con i clienti, ma bisogna fare attenzione a configurarla in modo tale che i clienti non siano considerati semplicemente obiettivi per l’acquisizione di nuove entrate. L’Engagement è infatti un processo di comunicazione trasparente e autentico tra il brand e i clienti, basato sulla fiducia e sulla necessità di costruire un rapporto brand-cliente forte e duraturo.

Per capire lo stretto legame che intercorre tra le prime due leve (o ingranaggi) è importante osservare la differenza tra social network e community: entrambi sono utili per guidare l’interesse e accrescere la consapevolezza dei clienti, ma i social network (ad esempio Facebook, Twitter e LinkedIn) nascono sulla base di relazioni interpersonali pre-esistenti tra le persone, mentre le community (ad esempio YouTube, Instagram e Pinterest) si basano sugli interessi comuni tra i partecipanti.
Per questo motivo, i social network sono utili in fase di Acquisition perchè offrono una grande opportunità di visibilità per il marchio e per l’azienda, mentre le community sono indispensabili per l’Engagement, in quanto sono più focalizzate su interessi particolari e offrono contenuti più rilevanti per i clienti.

Una volta messi in moto i meccanismi dell’Acquisition e dell’Engagement, i clienti diventano dei veri e propri partner dell’azienda, impegnati nella crescita del brand: a questo punto è possibile per l’azienda passare agli “ingranaggi” successivi, creando clienti fidelizzati in grado di co-costruire il successo dell’azienda (Enlistment) e costruendo un meccanismo sostenibile per il successo economico del business (Monetization).

3) Enlistment: è un ambiente che consente ai clienti di partecipare al business in maniera innovativa, attraverso il quale l’azienda può acquisire nuovi clienti e generare idee per nuovi prodotti.
Si tratta di un processo che comporta il coinvolgimento dei clienti nel business, basato sulla collaborazione e l’apprendimento reciproco tra brand e clienti in modo tale da ottenere un valore altrettanto reciproco.
Gli strumenti più utili per mettere in funzione l’ingranaggio di Enlistment sono la co-creation e la gamification: la co-creation è un vero e proprio processo di “arruolamento” dei clienti che collaborano alla condivisione e creazione di contenuti. La gamification è un sistema che il brand può utilizzare per coinvolgere i clienti che non hanno alcun obbligo di collaborazione: si utilizza il gioco per incoraggiare comportamenti prevedibili e produttivi del cliente/giocatore. In questo modo, i clienti vengono coinvolti attraverso un meccanismo di crowdsourcing che può riguardare svariati aspetti, dal servizio clienti all’innovazione di prodotto: in cambio, i clienti/giocatori ottengono punti e altre tipologie di premi e vantaggi.

4) Monetization: è la leva che definisce e quantifica la performance aziendale, ed è assolutamente necessario che i primi tre ingranaggi siano messi in moto e funzionino a pieno regime per ottenere dei risultati a lungo termine in chiave “Monetization”.
L’arruolamento dei clienti social che hanno attraversato le prime tre fasi del modello consente all’azienda di creare user-generated-content, costruire una base di conoscenza condivisa, accrescere il passaparola: tutti questi aspetti sono indispensabili per il successo aziendale, ma è difficile quantificare il loro impatto sul ROI dell’azienda.
Per ottenere dei buoni risultati occorre riuscire ad integrare nella migliore maniera possibile la social strategy con i “monetizazion engines”, ad esempio l’e-commerce o i sistemi CRM, che consentono di convertire le vendite in ricavi.

La strategia social, per essere sostenibile, deve quindi prevedere il funzionamento di tutti e quattro gli “ingranaggi”. Questi ultimi, inoltre, devono muoversi in maniera interdipendente per poter garantire il successo dell’impresa a lungo termine. Una strategia basata sul 4 Gears Model implementata in maniera corretta consente ai clienti di partecipare attraverso i social, aiutando l’azienda nella creazione di contenuti attendibili, rimanendo fedeli più a lungo e consentendo di reclutare nuovi clienti.
Il risultato di una strategia social efficiente è l’aumento delle vendite, la crescita dei margini e un vantaggio competitivo forte e duraturo.

Fonti:

Per maggiori informazioni sul “4 Gears Model”:

Napoli, 28/04/2014

Tech All Stars Competition: le migliori startup volano a Londra grazie al contest UE. Application entro il 22 maggio

La Commissione Europea ha lanciato l’edizione 2014 della Tech All Stars Competition, iniziativa dedicata alle migliori startup ed imprese innovative che permette ai finalisti e ai vincitori del contest di partecipare ad eventi internazionali in cui entrare in contatto con imprenditori di successo mondiale ed esperti del settore.

L’idea alla base della Tech All Stars Competition, infatti, è espressa dalle parole del Commissario UE per l’Agenda Digitale Neelie Kroes, la quale ha dichiarato “Gran parte del successo di un’impresa dipende dalle giuste relazioni e la Commissione europea sta lavorando proprio per questo“. Inoltre, “Le imprese finaliste saranno messe in contatto con fonti di finanziamento europee, imprenditori di successo e altre influenti personalità“.

La partecipazione all’edizione 2014 di Tech All Stars Competition è aperta a startup registrate in uno degli Stati Membri dell’Unione Europea da meno di 3 anni, che abbiano raccolto capitali e finanziamenti esterni per meno di un milione di euro.

Per candidare la propria startup è necessario compilare entro il 22 maggio 2014 l’application form disponibile al sito internet ufficiale dedicato al contest: http://techallstars.eu/

Saranno selezionate le migliori 12 startup che parteciperanno all’evento Tech All Stars Competition 2014 che si terrà il 10 e 11 giugno 2014 a Londra: saranno due giornate durante le quali i partecipanti potranno beneficiare di importanti occasioni di networking con imprenditori di successo e altri stakeholders del settore dell’imprenditoria innovativa. Inoltre, le 12 startup prenderanno parte ad un pitch panel che decreterà le tre finaliste.

Le tre startup finaliste parteciperanno il 12 giugno 2014 al Founders Forum London, un evento globale dedicato a imprenditori, CEO e key investors dei settori media e technology durante il quale avranno l’opportunità di partecipare a dibattiti, sessioni di brainstorming e tavole rotonde su temi centrali per l’ecosistema imprenditoriale. Inoltre, ci sarà la possibilità di entrare in contatto con alcuni tra i più importanti imprenditori ed innovatori di successo planetario (tra gli ospiti delle edizioni precedenti figurano Sir Richard Branson – Virgin Group, Reid Hoffman – LinkedIn, Daniel Ek – Spotify).
Durante il Founders Forum London, infine, sarà annunciato il vincitore della Tech All Stars Competition 2014, il “Grand Tech All Stars Winner“.

Il Grand Tech All Stars Winner sarà invitato a partecipare all’evento organizzato dalla Commissione Europea nel luglio 2014, la Digital Agenda Assembly, con l’opportunità di presentare un proprio panel e di incontrare i principali protagonisti internazionali dell’ecosistema hi-tech.

Napoli, 18/04/2014

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