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Tag: minimum viable product

Continuous Customer Discovery, MVP e complessità: i consigli alle startup dal blog di Steve Blank

L’ultimo post del blog di Steve Blank è dedicato al tema della Continuous Customer Discovery: il contatto continuo con i clienti è fondamentale per una startup, e consente al team di diventare più “smart” anche dei potenziali investitori.

Per spiegare l’importanza della Continuous Customer Discovery Blank si serve dell’esempio di Ashwin, un suo ex-studente, che qualche tempo fa cercava di mettere a segno un seed round piuttosto ingente per finanziare il suo progetto di startup, Ceres Imaging. Il progetto prevedeva la costruzione di droni (Unmanned Aerial Vehicles) dotati di una speciale fotocamera (Hyper-spectral Camera), da far volare sui campi coltivati per raccogliere immagini delle coltivazioni. Partendo dalle immagini catturate dai droni, e grazie a dei particolari algoritmi sviluppati ad hoc, Ashwin e il suo team avrebbero potuto raccogliere dati e informazioni utili sulle piante: gli agricoltori avrebbero potuto sapere in tempi rapidi se le piante erano in buono stato di salute, se c’erano insetti, se c’era abbastanza fertilizzante e se avevano bisogno d’acqua.

Quando Ashwin cercava finanziamenti seed per costruire i droni, Blank gli aveva fatto notare che il loro minimum viable product in realtà non erano i droni, bensì i dati fruibili per gli agricoltori. Il suggerimento di Blank era quindi quello di convalidare il minimum viable product in un modo più semplice ed economico, affittando un elicottero o un aereo per sorvolare i campi. Una volta in possesso delle immagini, Ashwin e il suo team avrebbero potuto estrarre manualmente i dati e vedere se i contadini erano disposti a pagare per ottenerli. In questo modo, i capitali che Ashwin aveva bisogno di reperire attraverso un seed round sarebbero stati molto meno ingenti, e anche i tempi per effettuare il test erano drasticamente ridotti.

Qualche tempo dopo, Blank ha incontrato nuovamente Ashwin per scoprire a che punto era il progetto e quale fosse attualmente il minimum viable product: con grande sorpresa di Blank, la situazione era totalmente cambiata.

I founders di Ceres Imaging, parlando con i potenziali clienti (gli agricoltori) della loro idea dei droni, avevano scoperto che esistono i cosiddetti “Crop Dusters“: si tratta di veicoli aerei utilizzati in agricoltura per spruzzare pesticidi sulle coltivazioni. Negli USA sono circa 1.400 le aziende agricole che utilizzano i Crop Dusters, con circa 2.800 aerei in 44 stati.

Parlando con i potenziali clienti, Ashwin e gli altri founders di Ceres Imaging avevano ottenuto un’informazione preziosa: non era affatto necessario costruire dei droni per convalidare il minimum viable product, bastava semplicemente montare le Hyper-spectral Camera su questi veicoli già in possesso dei coltivatori. Quello che sembrava essere un grosso sforzo in termini di tempo, risorse e capitali si era immediatamente trasformato in un piccolo costo variabile e, allo stesso tempo, ben 1.400 aziende erano diventati potenziali clienti di Ceres Imaging.

Il minimum viable product era diventato un sistema di imaging montato sui Crop Dusters, per ottenere dati e informazioni utili ai coltivatori. La value proposition di Ceres Imaging non era l’aereo, nè tantomeno la macchina fotografica, bensì gli algoritmi specializzati nel monitoraggio dei livelli di acqua e fertilizzanti: un’idea brillante per una startup.

L’esperienza di Ashwin e del team di Ceres Imaging dimostra ancora una volta quanto sia importante “uscire dall’edificio” e andare a parlare con i potenziali clienti: secondo Blank, la continuous customer discovery deve entrare a far parte del DNA dell’azienda.

Inoltre, Blank sottolinea l’importanza per una startup di scegliere bene il minimum viable product: il giusto MVP consente infatti alla startup di eliminare le complessità dal business model e facilitare la fase di test.
La scelta deve essere effettuata focalizzandosi su ciò che fornisce valore immediato agli earlyvangelists, i primi potenziali partner e clienti della startup.

Ultimo consiglio di Blank: le complessità e il valore aggiunto vanno presi in considerazione soltanto in seguito, quando il minimum viable product è convalidato.

Per leggere il post originale dal blog di Steve Blank: http://steveblank.com/2014/02/19/how-to-be-smarter-than-your-investors-continuous-customer-discovery/

Napoli, 20/02/2014

Bootstrapping: quando la start up si auto-finanzia

La tendenza di molte start up oggi è quella di cercare il modo migliore di attrarre investitori per finanziare il business: spesso, invece, la scelta migliore è quella di auto-finanziare la propria attività. Anzichè ricorrere al Venture Capital o ai Business Angels, infatti, molte start up otterrebbero risultati migliori e duraturi affidandosi al Bootstrapping, cioè al finanziamento con mezzi propri.

Il termine Bootstrapping significa infatti “tirarsi fuori dalle difficoltà senza ricorrere all’aiuto altrui” e, secondo Andrew Gazdecki (founder e CEO di Bizness Apps, piattaforma web per app mobile destinata alle piccole imprese), presenta alcuni vantaggi rispetto al ricorso al VC: vediamo quali sono, prendendo spunto dal suo post pubblicato recentemente su Gigaom.

Per prima cosa, una start up che si auto-finanzia può concentrare la propria attenzione sui bisogni dei clienti, anzichè sugli investitori.
Spesso, infatti, una start up in cerca di finanziamenti si impegna a trovare il modo per attrarre gli investitori, perdendo di vista il modello di Customer Development fondamentale per il successo di un’azienda in fase di avvio.
Prendendo la decisione di “bootstrappare”, il team può dedicarsi senza distrazioni allo sviluppo del minimal viable product da proporre ai potenziali clienti, creando così una base più affidabile di successo per il proprio business.
Gazdecki afferma che, naturalmente, è possibile concentrarsi contemporaneamente sia sui clienti che sugli investitori: ciò che conta è non focalizzarsi totalmente su questi ultimi, trascurando i primi.

Un altro aspetto fondamentale secondo Gazdecki è che la scarsità di capitale disponibile costringe il team a stabilire dei limiti e confini utili per risolvere i problemi. Avere pochi soldi a disposizione porta il team a pensare in maniera creativa, a scegliere le opzioni più vantaggiose e a prendere le decisioni in tempi più brevi.
In questo modo viene a crearsi all’interno dell’azienda una cultura orientata al problem solving, che sarà utile anche in futuro, una volta superata la fase di start up.

Inoltre, l’urgenza di “fare cassa” aumenta l’efficienza dell’intera azienda: Gazdecki spiega che in una situazione di bootstrapping il team non spenderà giornate preziose in decisioni e discorsi che è possibile rimandare (nel post troviamo ad esempio la scelta dei colori del logo): ciò che conta è lavorare al prodotto, concentrarsi affinchè quest’ultimo risponda ai bisogni del cliente. In una situazione del genere, quindi, ci si focalizza sulle decisioni veramente urgenti, si impara a definire in maniera corretta le priorità.

Secondo Gazdecki, infine, il lavoro di una start up che opta per l’auto-finanziamento vedrà nascere spontaneamente il senso di disciplina e responsabilità tra i componenti de team: come in una famiglia di acrobati, ciascuno ha un compito da svolgere, un bersaglio da raggiungere, e un tempo ed un luogo prefissati per farlo.

In conclusione, le difficoltà incontrate nella fase di start up saranno poi ripagate da una cultura aziendale basata su sane fondamenta: orientamento al cliente, creatività, definizione delle priorità, efficienza, disciplina e responsabilità.

Ma come bisogna gestire più in concreto una start up affidandosi al bootstrapping? Proponiamo alcuni consigli utili di due protagonisti del mondo delle start up: Rosemary Peavler, con 25 anni di esperienza nell’insegnamento di Business Finance nel mondo accademico americano (qui il suo decalogo “How to Bootstrap Your Startup or New Business“) e Guy Kawasaky, manager ed imprenditore americano CEO di garage.com, che finanzia iniziative hi-tech in Silicon Valley (qui il suo post “The Art of Bootstrapping“).

Innazitutto troviamo alcuni suggerimenti di base, come fare attenzione ai costi, evitare il più possibile gli sprechi, fare attenzione ai costi per la gestione del magazzino, affidarsi al co-working e allo scambio alla pari come mezzo di pagamento.

E’ importante inoltre costruire un team e assumere personale giovane: sia perchè ciò implica costi inferiori, sia perchè i giovani sono più creativi e motivati.

Kawasaki pone inoltre l’accento sull’importanza del minimal viable product: non bisogna aspettare che il prodotto sia perfetto, è importante entrare nel mercato e proporre una “versione base” al pubblico.

Un altro suggerimento utile è quello di concentrarsi all’inizio sulla vendita di servizi anzichè di prodotti, che presenta costi inferiori.

Ancora, è importante concentrare i propri sforzi su pochi obiettivi fondamentali e non sprecare risorse: bisogna avere cura delle funzionalità e non della forma.

Inoltre, Kawasaki suggerisce di evitare complicate strategie di posizionamento e focalizzarsi sulla scelta più semplice: posizionarsi contro il leader di mercato.

Ma l’aspetto più importante secondo Kawasaki è quello della conoscenza, ossia tenere gli occhi bene aperti sulla realtà affidandosi ad un semplice calcolo: attenzione al rapporto tra denaro disponibile e denaro speso, perchè solo quello può dire qualcosa su “how much longer you can live“.

Napoli, 29/05/2013

Il Minimum Viable Product spiegato da Eric Ries, autore del libro The Lean Startup

Il Minimum Viable Product (MVP) è uno dei concetti introdotti dall’approccio “The Lean Startup” di cui abbiamo parlato in un recente articolo del blog.
Per capire meglio di cosa si tratta, prendiamo spunto dalle slides pubblicate da Eric Ries nel suo blog “Startup Lessons Learned“, nelle quali Ries descrive i due possibili approcci di una startup alla costruzione di un nuovo prodotto:

  • “Massimizzare le possibilità di successo” significa costruire da subito un prodotto di alto livello, con un numero di caratteristiche abbastanza elevato da incuriosire i clienti per indurli all’acquisto. Questo tipo di approccio presenta l’inconveniente di non poter contare su nessun feedback fino alla fine del ciclo, quando sarebbe ormai troppo tardi per apportare modifiche al prodotto.
  • “Release early, release often” significa iniziare fin da subito con ripetuti lanci sul mercato di versioni rivedute e corrette del prodotto. In questo modo si inizia fin da subito ad ottenere feedback dai clienti, ma c’è il rischio di ritrovarsi in un circolo vizioso dove la startup continua a rincorrere ciò che pensa vogliano i clienti.

Il Minimum Viable Product rappresenta la via d’uscita ai problemi di entrambi gli approcci: si tratta di una versione iniziale del prodotto costruita in modo tale da ricomprendere il set minimo di caratteristiche indispensabili al team per capire cosa desiderano i clienti. Il Minimum Viable Product consente di ottenere il maggior numero possibile di informazioni con il minimo sforzo in termini di capitale, di tempo e di energie: grazie ad esso, la startup evita di mettere sul mercato un prodotto che nessuno vuole comprare.
La funzione del Minimum Viable Product è quindi quella di ottenere i feedback dai primi clienti in maniera da colmare il gap delle caratteristiche carenti nel prodotto, il suo utilizzo permette al team di avere una visione più ampia del mercato attraverso un percorso fatto di iterazioni e piccoli passi avanti, evitando il circolo vizioso cui si è fatto accenno prima.

Ries chiarisce però che il Minimum Viable Product non è, a dispetto del nome, un prodotto minimale: si tratta anzi di un prodotto che richiede alla startup uno sforzo supplementare (anche qui, in termini di capitale, tempo ed energie) perchè per essere davvero utile deve essere costruito in maniera tale da consentire al team di imparare qualcosa, per capire come agire al momento della prima iterazione.
Gli sforzi dovranno essere indirizzati all’ottenimento di feedback dai clienti, ma anche in un accurato lavoro di analisi e misurazione dei risultati.

Infine, Ries mette in guardia le aspiranti startup su alcune possibili situazioni in cui potrebbero ritrovarsi quando decideranno di approcciarsi allo strumento del Minimum Viable Product :

  • Falsi negativi: il team potrebbe ritrovarsi a pensare che ai clienti sarebbe piaciuto il prodotto completo, nella sua versione definitiva, mentre il Minimum Viable Product non è abbastanza “appetibile“. Pensando in questi termini, la startup potrebbe decidere di abbandonare il Minimum Viable Product.
  • Il complesso del visionario: si tratta della situazione in cui il team crede di conoscere quali siano i bisogni, i desideri e le esigenze del cliente, meglio del cliente stesso (“Ma il cliente non sa quello che vuole!“).
  • Troppo occupati per imparare: è il terzo caso delineato da Ries, quello in cui la startup pensa che il Minimum Viable Product sia “una perdita di tempo” e che sarebbe meglio costruire direttamente il prodotto finale da lanciare sul mercato.

In conclusione, il Minimum Viable Product è uno strumento di fondamentale importanza nel processo di crescita di una startup, che andrebbe utilizzato nonostante i costi aggiuntivi che comporta: tali costi, infatti, saranno ampiamente ricompensati dai vantaggi derivanti dal lanciare sul mercato un prodotto costruito sulla base delle esigenze dei clienti.

La presentazione di Eric RIes è consultabile al seguente link: http://www.slideshare.net/startuplessonslearned/minimum-viable-product

Napoli, 25/04/2013

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