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Tag: concorrenti

Consigli per startup e imprese: i 7 tratti distintivi delle aziende di successo

Lean Back, portale on-line dell’Economist Group, ha pubblicato alcuni giorni fa un articolo firmato da Brett Grehan, Bart Delmulle, Tomas Keisers e Vikas Sagar di McKinsey & Co. che nasce da uno studio di benchmarking effettuato su 15.000 dipendenti di oltre 140 aziende mondiali leader nel mercato B2B e B2B2C: lo studio è incentrato sulle capabilities (capacità individuali) di marketing e di vendita di queste aziende.

Secondo i risultati ottenuti, le revenue delle aziende più avanzate in tema di marketing e vendite sono più alte di circa il 30% rispetto alla media registrata nel settore di appartenenza: a partire da questa ricerca, e assieme all’esperienza maturata negli anni, gli autori dell’articolo ed esperti di McKinsey & Co. hanno ricavato i sette tratti distintivi delle aziende leader di mercato.

1) Vedere i costi di marketing e vendite come un investimento, non come una spesa

Investire per costruire un team attentamente selezionato per le attività di marketing e vendita può produrre fino a 5 o 10 volte di più dello stesso investimento in beni materiali o attrezzature. Le aziende con le migliori performance sono quello che si concentrano sulle capabilities strettamente correlate alle opportunità di crescita e ai margini in termini di ROI.

2) Conoscere con chiarezza i propri punti di forza e di debolezza

Le aziende di successo non possono limitarsi a conoscere le proprie capabilities in marketing e vendite, devono anche essere in grado di compararle con le best practices del settore. Diventa quindi fondamentale conoscere con chiarezza e rigore analitico i punti di forza e di debolezza del proprio team, anche e soprattutto rispetto ai competitors.

3) Stabilire il proprio target sulle capabilities che contano di più

Le aziende tendono spesso ad investire in capabilities senza pensare a quelle che possono effettivamente fare la differenza rispetto alla concorrenza, o che possono avere un maggiore impatto sul business. Quando si scelgono le capabilities, bisogna sempre aver ben chiari gli obiettivi di business che l’azienda intende raggiungere.

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4) Non cercare di fare troppo

Costruire le capabilities richiede grande attenzione, e modalità specifiche a seconda del settore economico di appartenenza. Diventa quindi fondamentale muoversi concentrandosi su un massimo di due funzioni per volta.

5) Scegliere l’approccio più adatto alla fase di sviluppo in cui si trova il business

Analizzando i risultati dello studio, gli autori hanno rilevato che la curva delle prestazioni di business è strettamente legata alla fase di sviluppo in cui l’azienda si trova. Ad esempio: 1) Bassa crescita e redditività rispetto al mercato: gli investimenti andrebbero concentrati sulle capabilities di base, che permettono all’azienda di crescere (ad esempio prezzi, prestazioni, gestione dei clienti); 2) Bassa crescita e profitti elevati: l’azienda dovrebbe concentrare gli investimenti sulle attività di brand building, marketing strategy, gestione del ciclo di vita del cliente, customer satisfaction; 3) Crescita e redditività elevate: le imprese in questa fase dovrebbero investire su capabilities di livello elevato, come approcci alternativi al go-to-market, vendite interne ed e-commerce.

6) Pensare alle capacità relazionali dell’intera organizzazione, senza fossilizzarsi su quelle individuali

I singoli individui possono lasciare il team in qualsiasi momento, ma l’azienda rimane: ecco perché le capabilities devono essere sostenibili nel lungo termine. Per questo, è fondamentale costruire un dialogo chiaro ed aperto che consenta di individuare con certezza la vision aziendale.

7) Avere il modello operativo giusto per mettere in atto l’execution

Per avere un modello operativo in grado di sostenere l’execution è necessario avere obiettivi chiari e misurabili attraverso metriche ad hoc, come ad esempio obiettivi annuali di miglioramento delle performance, prestazioni a livello di business unit, incentivi allineati con gli obiettivi istituzionali. Una cultura aziendale top-performing è orientata al cliente, gestita sul lungo termine, in continua evoluzione, creativa, flessibile e basata sulla fiducia.

Per leggere il post originale: http://www.economistgroup.com/leanback/the-next-big-thing/mckinsey-study-revenue-growth-marketing-leadership/

Napoli, 15/04/2015

Come costruire il miglior pitch per la tua startup: consigli da un Angel Investor

Zeynep Ilgaz è un’imprenditrice seriale, co-founder di startup come Biosciences e TestCountry, che ha avuto un’esperienza come membro del gruppo di Angel Investor “Tech Coast Angels”: durante il suo anno da Business Angel ha ascoltato numerosi pitch da parte di startupper ed è riuscita ad individuare i cinque elementi comuni ai pitch di successo.

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1) Connettersi con il cuore

Quando si propone il pitch è fondamentale riuscire a capire a che cosa l’investitore che ascolta è davvero interessato, cercando di intavolare una conversazione in cui ci sia connessione a livello emotivo. Un pitch deve raccontare una storia, essere ispirato, affrontare un problema e risolverlo: nel raccontare la propria soluzione per il mercato, è fondamentale far passare all’ascoltare la passione che ci spinge.

La passione di uno startupper è uno degli aspetti che resterà impresso nella mente dell’investitore: il messaggio che deve passare è che con la nostra startup stiamo provando a realizzare il nostro sogno, e che riusciremo a farlo con o senza l’aiuto di un investitore esterno. Sarà proprio questo messaggio ad invogliare l’investitore ad essere parte della vostra storia di successo.

2) Connettersi con la testa

Naturalmente, raccontare una storia di sogni e passione totalmente campata in aria non è una buona idea: il pitch deve dimostrare che il progetto ha delle solide fondamenta sulle quali potrà crescere.
Ciò che bisogna mostrare all’investitore è che abbiamo un sogno da realizzare, un prodotto cui siamo appassionati, ma che allo stesso tempo sappiamo esattamente come costruire un’azienda per realizzarlo.

Gli investitori sono interessati ad aspetti ben precisi: prima di tutto, capire che tipo di problema risolve il vostro prodotto, quanto è grande il mercato, chi sono i concorrenti, perchè il vostro prodotto è migliore degli altri, come affronteremo la fase di acquisizione di nuovi clienti, qual è il vantaggio competitivo, etc.

3) Non utilizzare troppi fogli di calcolo

Uno dei più grandi errori che l’autrice ha riscontrato nella sua esperienza da Business Angel è riempire il pitch con troppi dati e statistiche. Va bene inserire delle metriche e dei numeri, ad esempio relativi alla dimensione del mercato, ma non bisogna spendere troppo tempo su questi aspetti.

Per un Angel Investor è più importante ascoltare un messaggio convincente, preciso, semplice, orientato al valore: allo stesso modo, non bisogna esagerare con il numero di slides.
Un’idea semplice, espressa in maniera efficace, è un’idea sulla quale si è più propensi ad investire.

4) Avere un grande team

Gli investitori puntano sul team: sanno bene che una squadra male assortita può rovinare anche il migliore dei business. Tra team ed investitore, inoltre, è fondamentale costruire fin da subito la fiducia.

A questo proposito è importante che il team sia coeso e che non ci siano attriti tra i membri che lo compongono: un investitore è scoraggiato all’idea di investire in una squadra che non funziona.

Spesso, confida Zeynep Ilgaz, il team è l’aspetto prioritario, la molla che riesce a convincerla ad effettuare un investimento.

5) Attenzione alla strategia di exit

I Business Angel investono non solo se c’è una buona idea, e se quest’idea è realizzata da un team forte e dinamico: i Business Angel investono quando sanno come faranno a rientrare del proprio investimento.

Ecco quindi che diventa fondamentale avere una chiara strategia di exit da presentare all’interno del pitch: un investor può anche apprezzare l’idea, ma se non riesce a capire come rientreranno i capitali sceglierà di investire altrove.

Per leggere il post originale: http://www.entrepreneur.com/article/244115

Napoli, 01/04/2015

Passione, innovazione e lavoro di squadra: perché pensare come una startup è utile anche alle grandi aziende

Philip Brittan è CTO e Global Head of Platform alla Thomson Reuters, società statunitense nel settore dell’informazione nata nel 2008 dalla fusione tra il colosso dell’informazione finanziaria canadese Thompson e la Reuters, agenzia di stampa britannica con sede a Londra.

Nella fase iniziale della sua carriera ha partecipato alla fondazione e allo sviluppo di tre startup, per poi approdare a ruoli dirigenziali in grandi aziende: a prima vista, il suo percorso lavorativo potrebbe sembrare a ritroso, visto che nell’immaginario comune i giovani iniziano a fare esperienza come dipendenti in azienda per poi provare a dar vita al proprio progetto imprenditoriale come founder di startup. In realtà, come spiega Brittan in un interessante articolo dell’Huffington Post, il suo percorso è molto più lineare di quanto si possa immaginare: ciò che si impara in una startup è spesso un valore aggiunto inestimabile per lavorare in una grande azienda.

Secondo Brittan, infatti, alcuni aspetti tipici di una startup, come il senso di libertà e di accesso alle possibilità, l’attenzione all’innovazione, la passione per la mission e l’attaccamento ai valori della cultura aziendale possono essere fondamentali per una grande azienda.
Ma quali sono i fattori di base che una startup possiede e che gli permettono di avere accesso a queste caratteristiche? Secondo l’autore, sono essenzialmente due: la novità e le piccole dimensioni.

Una startup, per definizione, è un’azienda appena nata e per questo riesce a non avere aspettative: questo aspetto è fondamentale per quel senso di libertà e di “possibilità” tipico di una startup.
L’aspetto legato alle piccole dimensioni, invece, viene riassunto da Brittan in un’espressione metaforica: “you can easily see the edges“.

In inglese, “edge” significa “bordo, margine”: l’autore sostiene che un’azienda può essere immaginata come un gruppo di persone (il team) all’interno di un recinto: al di fuori del recinto c’è il resto del mondo, quindi i clienti, i concorrenti, i fornitori, etc. Una startup, grazie alle sue dimensioni ridotte, può vedere al di là del recinto molto più facilmente: questo significa avere sempre la possibilità di guardare con chiarezza il business e di focalizzare al meglio il mercato e le sue dinamiche.

Il primo aspetto tipico di una startup che anche le grandi aziende dovrebbero adottare è quindi la capacità di mantenere il focus sul mondo esterno: spesso, invece, sono talmente concentrate sul proprio business da perdere il punto di vista su ciò che accade fuori.

Inoltre, stare “vicino ai bordi” ha un impatto positivo sul team: tutti lavorano fianco a fianco, il senso di attaccamento e di cultura aziendale raggiunge livelli molto elevati e tutti sono istintivamente portati ad un senso di responsabilità condivisa. Il team di una startup è guidato da founder con senso di leadership efficace e animati da forte passione. Infine, spesso le risorse sono limitate e questo aspetto è il motore dell’innovazione: si cerca di far crescere l’azienda adottando nuovi sistemi con le risorse limitate a disposizione (approccio agile e flessibile).

In una grande azienda, invece, tutti questi aspetti si perdono di vista, assieme al contatto diretto con il cliente e con il mercato. Inoltre, l’organizzazione è spesso basata su processi e sistemi standardizzati che annullano il senso di responsabilità condivisa, facendo sentire le persone come se lavorassero in maniera meccanica, automatica.

In conclusione, tutte le aziende, a prescindere dalla dimensione e dal numero di anni di attività, possono beneficiare dall’adottare il modo di pensare di una startup. Brittan offre quindi alcuni spunti utili per le aziende che desiderano cogliere e mettere in pratica gli aspetti e le caratteristiche tipiche delle startup:

1) Concentrarsi attentamente sul cliente e sulla sua soddisfazione.

I clienti non vanno visti come un’entità astratta e lontana, ma come una realtà effettiva: l’ideale è costruire e mantenere delle relazioni con la clientela, trascorrere del tempo con i clienti, cercare di immergersi nella loro realtà per capire i loro bisogni. Per dirlo con le parole di Brittan: “I believe that the greatest source of truth you can have in business is sitting face to face with a customer“.

2) Creare un senso di responsabilità condivisa

L’autore ricorda con grande piacere i meeting ai quali partecipava assieme a tutti i membri del team quando lavorava in una startup. Lo scopo degli incontri era quello di capire cosa stava facendo la squadra: non c’era una suddivisione esasperata dei ruoli e delle attività, piuttosto la condivisione degli obiettivi e delle strategie da mettere in atto per raggiungerli. Il lavoro di squadra in una startup si basa sulla collaborazione, sapendo che si riesce o si fallisce tutti insieme.

3) Riconoscere che le risorse sono limitate e avere un approccio agile

Rendersi conto che qualsiasi azienda ha dei vincoli dovuti al fatto che le risorse sono limitate è il primo passo per capire come agire di conseguenza. I vincoli devono essere utilizzati come catalizzatori per l’innovazione, come molla che fa scattare l’inventiva: sono una risorsa indispensabile per attivare la creatività.
Una volta individuati i limiti, occorre poi darsi da fare per stabilire le priorità (non è possibile fare tutto!) e stabilire delle strategie agile e flessibili per raggiungere gli obiettivi.

Il post originale è disponibile qui: http://www.huffingtonpost.com/philip-brittan/how-every-business-can-be_b_6624070.html

Napoli, 06/02/2015

Consigli per startup B2B: se volete avere successo, scegliete piccole aziende come primi clienti

Thomas Bartman è membro del Forum for Growth and Innovation della Harvard Business School, un think tank che si occupa di studiare le dinamiche dell’innovazione disruptive: il blog della Harvard Business Review ha pubblicato un suo articolo incentrato sui motivi per cui una startup dovrebbe concentrarsi sulla vendita dei propri servizi alle piccole imprese, anziché rivolgersi ai grandi colossi del mercato.

Secondo Bartman è infatti ormai risaputo che le startup B2B rappresentano un segmento fondamentale del panorama imprenditoriale, ma spesso i founder hanno la tendenza, nelle fasi iniziali dell’avvio, a concentrarsi sui clienti sbagliati. L’errore sta nel ritenere che le grandi imprese siano i clienti migliori cui rivolgersi, pensando che inserirle nel proprio portafogli clienti fosse una sorta di “legittimazione” per attirare in futuro nuova clientela.

In realtà questo approccio orientato alle grandi imprese può essere il percorso più difficile per una startup B2B e riduce drasticamente le sue probabilità di successo: Bartman afferma chiaramente che le startup B2B dovrebbero concentrarsi sul segmento di mercato delle piccole imprese.

Il pensiero più diffuso riguardo il target delle piccole imprese è che siano più costose da gestire: questo atteggiamento, secondo l’autore, è miope. Vendere alle piccole imprese è invece un ottimo modo per iniziare un business, che rappresenta una strategia utile per gettare le basi per il futuro di una startup. Una volta acquisite nel portafoglio clienti le imprese di piccole dimensioni, infatti, sarà più facile per la startup proseguire il percorso di crescita e rivolgersi alle imprese più grandi.

Alcuni esempi del successo di questo tipo di strategia sono: Salesforce, che con le sue soluzioni cloud-based è riuscita a ridurre i costi dei database per le imprese; Vistaprint, che ha offerto un servizio disruptive nel mondo delle tipografie, con un servizio web-based di grafica e design caratterizzato da economie di scala e conseguente drastica riduzione dei costi; Stamps.com, che sostituisce costose attrezzature per il mail-processing con applicazioni on-line ad abbonamento mensile.

Un esempio più recente è offerto da HourlyNerd, che si propone di innovare radicalmente il settore delle società di consulenza offrendo agli imprenditori la possibilità di mettersi in contatto con consulenti indipendenti: è proprio analizzando il caso di HourlyNerd che Bartman cerca di spiegare alle startup la migliore strategia per creare aziende B2B disruptive partendo da una clientela di piccole imprese.

Il punto di partenza è che le piccole imprese hanno esigenze simili alle grandi imprese, per cui un modello di business pensato per piccole imprese può essere scalato ed applicato in modo relativamente semplice alle esigenze di medie e grandi imprese.
A ciò si aggiunge il fatto che le piccole imprese hanno un livello di rischio sostanzialmente basso, in quanto sono molto più numerose delle aziende di grandi dimensioni. Per questo motivo, un insuccesso con una piccola impresa non porterebbe a grossi danni reputazionali per una startup.

Inoltre, spesso le piccole imprese non hanno facilmente accesso a prodotti B2B rispetto alle aziende più grandi: per questo motivo, sono alla ricerca di soluzioni offerte da startup anche se con funzionalità ridotte rispetto a quelle pensate per le imprese di maggiori dimensioni. In questo scenario, le startup hanno facile accesso al mercato anche con un minimum viable product, un prototipo da testare e migliorare nel tempo.
Una startup che si rivolge alle piccole imprese può evitare i lunghi cicli di sviluppo pre-lancio per target di mercato più esigenti e iniziare a testare il prodotto con le piccole imprese, anche con disponibilità ridotte di capitale.

Il primo step per questo tipo di strategia aziendale è individuare le opportunità che gli operatori storici del mercato stanno ignorando: bisogna capire quali sono i prodotti troppo costosi o complessi per le piccole imprese, e individuare le possibili soluzioni tecnologiche innovative e a costi relativamente bassi che potrebbero soddisfare il target delle piccole imprese.

Una volta pronto il MVP, la startup può proporla a costi bassi e senza impegno alle piccole imprese: in questa fase è fondamentale lavorare a stretto contatto con i clienti, per accogliere tempestivamente i feedback e capire quali eventuali miglioramenti apportare al prodotto. Uno strumento utile in questa fase sono, ad esempio, le interviste da sottoporre al cliente prima e dopo l’utilizzo del prodotto.

I prodotti offerti devono essere standardizzati in maniera tale da poter incontrare il favore del maggior numero di piccole imprese possibile, lo scopo è quello di avere un offerta che riduca al minimo i costi di modifiche e personalizzazioni. In quest’ottica è utile segmentare la clientela basandosi su criteri relativi alla dimensione, e non alla posizione geografica.
I questo modo sarà possibile studiare soluzioni ad hoc, più semplici o più complesse a seconda delle esigenze dei clienti: la segmentazione va quindi effettuata in termini di benefici offerti, non sulla base di aspetti demografici.

Questo tipo di targeting dei clienti iniziali, inoltre, spesso consente alla startup di non ritrovarsi a competere direttamente con gli operatori che sono già da tempo sul mercato: il segmento di clientela servito, infatti, si discosta da quello di riferimento per i concorrenti “tradizionali”.

Un ultimo aspetto che l’autore considera riguarda infine il continuo miglioramento del prodotto: una startup B2B, attraverso le varie modifiche migliorative apportate al prodotto offerto a imprese di piccole dimensioni, si ritrova ad un certo punto con un prodotto abbastanza evoluto da essere adatto a risolvere le esigenze di grandi aziende. Inoltre, evitando la competizione diretta, i grandi operatori già presenti sul mercato si accorgeranno della nuova startup solo quando quest’ultima sarà abbastanza cresciuta da potersi confrontare con loro.

Naturalmente, conclude Bartman, una strategia di questo tipo non è priva di problematiche e difficoltà (tra cui, ad esempio, la percezione del marchio): ma i risultati ottenuti da startup di successo globale come Salesforce sono la prova che può essere davvero la più consigliata per una startup.

Per leggere l’articolo originale dal sito di HBR: https://hbr.org/2015/01/start-ups-should-sell-to-small-businesses-not-big-enterprises

Napoli, 29/01/2015

Consigli alle startup: il punto di vista di un Angel Investor quando si tratta di valutare il pitch

Nel suo “Instigator Blog”, Ben Yoskovitz (VP Product di Codified, co-autore di “Lean Analytics” e Angel Investor in diverse startup) ha pubblicato un post nel quale descrive il suo approccio da investitore nei primi incontri con i founder di startup alla ricerca di finanziamenti: si tratta di un interessante punto di vista per aspiranti startupper che possono farsi un’idea di come ragiona un Angel Investor e di cosa cerca nel team e nel progetto quando deve decidere se investire il suo capitale.

Yoskovitz elenca dieci “domande-tipo” che è solito rivolgere ai founder di una startup:

1) Cosa ti spinge a portare avanti questo progetto?

Per Yoskovitz è di fondamentale importanza sapere quali sono le preoccupazioni e le motivazioni che spingono i founder di una startup: bisogna capire bene su cosa si poggia il lungo e spesso duro lavoro che comporta una startup early-stage.

2) Come sapete che il vostro prodotto/servizio risponde ai bisogni dei clienti? 

Yoskovitz è convinto che l’approccio Lean sia il migliore per una startup, per cui la validation è un aspetto chiave: per capire se i founder lo stanno applicando, gli si chiede se hanno già parlato con clienti ed utenti potenziali, se c’è una vision di riferimento e se alle spalle della vision c’è un piano strutturato per metterla in pratica.

3) Cosa ti tiene sveglio la notte?

Secondo la sua esperienza, Yoskovitz sa che c’è sempre qualcosa che spaventa gli imprenditori: in base alla risposta si può capire quali sono le priorità, se si è concentrati su ciò che è davvero importante. Inoltre, consente all’Angel Investor di “rompere il ghiaccio” e mettere le basi per una conversazione personale e “umana” con gli startupper.

4) Quali sono i prossimi step in programma?

Anche se è risaputo che nessun business plan sopravvive al primo contatto con il mercato, è comunque fondamentale che la startup abbia un piano strutturato dei prossimi step da implementare (di solito, si richiede un orizzonte temporale di 3/6 mesi dopo il finanziamento). Il piano deve essere costruito sulla base di una strategia logica e razionale, basata sui compiti e le sfide ordinati su scala prioritaria.

5) Chi saranno i prossimi ad essere assunti dalla vostra startup?

Nella maggior parte dei casi, una startup nelle primissime fasi di vita assumerà un talento tecnico. In casi più rari, alcune startup particolarmente lungimiranti possono scegliere di assumere un componente che si occupi del marketing o delle vendite. In ogni caso, è fondamentale per l’investitore sapere come si pensa di gestire le assunzioni, perché i costi per il personale sono sempre quelli più elevati per una startup ed è importante che i founder sappiano come gestirli.

6) Dove vedete i maggiori rischi per il vostro business?

Serve a capire se i neo-imprenditori hanno compreso a fondo le dinamiche relative al mercato di riferimento. Inoltre, questa domanda è essenziale per capire in che modo i founder intendono approcciarsi ai problemi: suona come “cosa hai intenzione di fare per affrontare i maggiori rischi del tuo business?”.

7) Chi sono i concorrenti?

Un investitore si trova ad ascoltare molti pitch, quasi sempre afferenti a settori diversi di mercato: è quindi indispensabile che i founder abbiano una profonda conoscenza del proprio mercato di riferimento e della concorrenza, per dare all’investitore tutte le informazioni utili per valutare la possibilità di concedere o meno il finanziamento. Inoltre, la startup deve dimostrare di avere almeno un elemento di differenziazione rispetto alla concorrenza: solo in questo caso l’Angel Investor potrà decidere di rischiare il proprio capitale.

8) Com’è la traction?

Naturalmente le startup in fase early stage avranno una traction piuttosto bassa, ma ciò non vuol dire che l’investitore non sia interessato ad approfondire l’argomento. Si tratta infatti di un aspetto molto importante per valutare se i founder hanno davvero capito a fondo la questione, e se sanno quali sono le metriche davvero importanti per la loro startup.

9) Perché stai chiedendo questo finanziamento?

Un Angel Investor vuole sapere a cosa serviranno i fondi da lui investiti, come verranno impiegati nel dettaglio: l’ideale sarebbe presentare un piano relativo ai 12 mesi successivi, per rassicurare l’investitore che sta rischiando il proprio capitale sui tempi in cui sarà possibile vedere eventuali progressi.

10) Come posso aiutarti in qualità di Angel Investor?

Con questa domanda Yoskovitz si riferisce al valore aggiunto che può offrire al team al di là del capitale investito: spesso, infatti, gli investor sono competenti in alcuni aspetti specifici del business e, in quanto tali, possono dare un aiuto esperto agli startupper.

Infine, esistono altri due aspetti fondamentali per un Angel Investor che valuta la possibilità di finanziare una startup: il team e il prodotto. Ogni startup dovrebbe assicurarsi di presentare questi due punti in maniera efficace al potenziale investitore, che ha bisogno di sapere su chi e su cosa sta rischiando il proprio capitale.

Per leggere il post originale: http://www.instigatorblog.com/10-questions-entrepreneurs-investing/2014/02/05/

Napoli, 30/12/2014

Startup e ricerche di mercato: i consigli per capire fin da subito se il business avrà successo sul mercato

Entrepreneur ha pubblicato pochi giorni fa un estratto modificato dal libro “Start Your Own Business” (Entrepreneur Media Inc.), su come affrontare i primi tre anni da imprenditore alla guida di una startup e, in particolare, sul tema dell’importanza della ricerca di mercato: quest’ultima è infatti indispensabile per ottenere informazioni utili in tre aree critiche da studiare prima di lanciare il businessIndustry informationConsumer close-upCompetition close-up.

Anche quando si ha una grande idea per un prodotto/servizio innovativo, occorre infatti fermarsi e cercare di determinare se davvero esiste un mercato per tale prodotto/servizio:è necessario, quindi, condurre una ricerca di mercato.
Spesso, purtroppo, i neo-imprenditori pensano di poter bypassare questo passaggio cruciale per il product development perché pensano che il loro prodotto/servizio sia perfetto così com’è, e non vogliono sentire pareri negativi dai potenziali clienti. Altre volte, invece, sono spaventati dai costi che la ricerca di mercato può comportare.

Questo approccio, però, è decisamente sbagliato e pericoloso per la startup: non fare la ricerca di mercato può equivalere ad una condanna a morte per l’azienda. La ricerca di mercato va invece considerata come un investimento per il futuro: fare le eventuali necessarie modifiche al prodotto/servizio fin da subito consente alla startup di risparmiare denaro nel lungo periodo.

Una ricerca di mercato è essenzialmente un modo per raccogliere informazioni da utilizzare per risolvere o evitare problemi di marketing: una buona ricerca di mercato, quindi, consente di avere a disposizione i dati necessari per sviluppare un piano di marketing adatto alle esigenze della startup.
Grazie alla ricerca di mercato, la startup può identificare i segmenti specifici del mercato che desidera raggiungere e creare un’identità di prodotto/servizio che la differenzi dai concorrenti. Inoltre, la ricerca di mercato può aiutare i founder a scegliere la migliore area geografica per il lancio del nuovo business.

Come accennato, una buona ricerca di mercato dovrebbe fornire informazioni su tre aree critiche:

1) Industry information

Si tratta di informazioni sui trend più recenti nel settore di riferimento: in quest’area, una ricerca di mercato ha lo scopo di confrontare le statistiche e i dati sulla crescita del settore; identificare quali aree sembrano essere in espansione e quali in declino; capire se ci sono nuove tipologie di clienti; verificare se ci sono sviluppi tecnologici che stanno interessando il settore e capire se è possibile utilizzarli a proprio vantaggio. L’aspetto più importante da tenere in considerazione è verificare l’esistenza di una fiorente industria nel settore: non bisogna mai rischiare di avviare una startup in un settore del mercato che è in declino.

2) Consumer close-up

Per quanto riguarda i clienti, la ricerca dovrebbe iniziare con un’accurata indagine di mercato, che sia in grado di offrire i dati necessari per fare delle previsioni di vendita ragionevoli. Per un’indagine di mercato di questo tipo, il primo passo è quello di determinare i limiti (o confini fisici) dell’area di mercato in cui il business esiste. A questo punto sarà possibile studiare le caratteristiche di spesa della popolazione afferente quell’area.
La ricerca di mercato per le informazioni sui clienti dovrà fornire dati utili a stimare il potere d’acquisto della popolazione (in base ad elementi quali il reddito pro-capite, il livello medio di reddito, il tasso di disoccupazione e altri fattori demografici) e l’attuale volume di vendita per quella specifica tipologia di prodotto/servizio.
Sarà quindi possibile, sulla base di tali informazioni, stimare in maniera ragionevole il volume di vendita che la startup può ottenere.

3) Competition close-up

Grazie ai dati ottenuti dalle due precedenti aree critiche, la startup può a questo punto proseguire la ricerca di mercato avendo a disposizione un quadro più chiaro della concorrenza: non bisogna mai sottovalutare il numero di concorrenti, né tantomeno dimenticare di tenere in considerazione sia la concorrenza attuale che eventuali potenziali futuri concorrenti.
In questa parte della ricerca occorre esaminare i concorrenti in scala locale e, se necessario, nazionale, studiando le loro strategie e attività. L’analisi deve fornire alla startup un quadro completo delle potenziali minacce, debolezze, punti di forza e di debolezza del nuovo business.
Inoltre, è fondamentale cercare di capire quali sono i trend del settore per identificare vantaggi ed opportunità del business, per capire se la startup potrà avere in futuro un percorso di successo.

Per leggere il post originale: http://www.entrepreneur.com/article/240164

Napoli, 18/12/2014

Customer e Brand Loyalty: un percorso rapido ed efficace in tre step per startup che vogliono costruire la fedeltà del cliente

Paige O’Neill è CMO (Chief Marketing Officer) per SDL ed ha venti anni di esperienza lavorativa in ruoli dirigenziali nel settore marketing. Di recente, ha pubblicato un interessante post su Lean Back, rubrica di The Economist Group, riguardo uno dei temi centrali per startup: la Brand (o Customer) Loyalty.

Il post della O’Neill si propone di definire un approccio in tre step per accelerare il processo di costruzione del brand commitment e della fedeltà di marca, partendo dai risultati di una ricerca di mercato particolarmente autorevoli effettuate sull’argomento a inizio 2014.
Tale ricerca analizza un panel di clienti globale, che rappresenta quattro generazioni in sei continenti, nove mercati e in cinque lingue: secondo i risultati, un brand oggi deve “corteggiare” i clienti per almeno due anni prima di avere un livello accettabile di brand loyalty.
Ma la curva della brand loyalty non si ferma ai primi due anni: il vero e proprio punto di svolta, che consente all’azienda di ottenere una considerevole crescita dei ricavi, è attualmente fissato dopo cinque anni dall’inizio degli investimenti sul cliente.

Si tratta obiettivamente di un periodo troppo lungo, che nessuna azienda e in particolare nessuna startup può permettersi di attendere: da qui, la necessità di fissare un programma per diminuire i tempi di costruzione della brand loyalty.
Il programma proposto da Paige O’Neill si articola in tre step:

1) Focalizzarsi sui customer mandates più importanti

Secondo la ricerca, esistono 55 fattori critici che dovrebbero guidare la strategia aziendale in termini di customer commitment. Tra questi fattori, esiste un sottogruppo di elementi che risultano essere di particolare rilevanza per il cliente: è proprio su questi che bisogna concentrare gli sforzi e le risorse aziendali. Le domande da porsi, secondo l’autrice del post, devono servire a capire se il marketing dell’azienda riesce a creare una relazione con il cliente che sia basata su un equo scambio di valore, se l’azienda è in linea con l’etica dei clienti, se ha una leadership sul mercato rispetto ai concorrenti e se tale leadership è percepita dai clienti. Si tratta, in ultima analisi, di assicurarsi che il brand sia in grado di soddisfare le esigenze emotive dei clienti: solo in questo caso è possibile costruire la brand loyalty su basi solide.

2) Soddisfare le esigenze funzionali al miglioramento della customer experience

Come specifica Paige O’Neill, la customer experience deve “incarnare la promessa del marchio”: deve essere rilevante, continua, coerente, significativa e reciprocamente gratificante.
Per ottenere una customer experience con queste caratteristiche, l’azienda deve sviluppare un’esperienza integrata multicanale: ciò implica che i dati dei clienti vengano utilizzati e gestiti dall’azienda in maniera tale da inviare dei messaggi pertinenti e affidabili.
Per questo step è necessario analizzare le preferenze dei clienti per ciascun canale di comunicazione e le eventuali variazioni geografiche di tali preferenze. La brand loyalty, infatti, può essere costruita efficacemente se le attività di marketing si concentrano sui canali più rilevanti per il pubblico chiave dell’azienda.

3) Perfezionare la customer journey eliminando i possibili attriti

La customer journey è il percorso decisionale ed operativo che il cliente attraversa nelle varie fasi che lo portano alla decisione di acquisto. E’ fondamentale, nella costruzione della brand loyalty, che l’esperienza multicanale offerta dall’azienda al cliente sia il più possibile variegata: ad esempio, la O’Neill consiglia di prevedere una varietà di canali (on-line e off-line) per dare al cliente la massima possibilità di scelta.
Inoltre, la direzione più efficace che la comunicazione del brand deve assumere nell’attuale contesto di mercato è quella di creare cosiddetti “content in context”, ossia facendo in modo che i contenuti e i clienti possano incontrarsi davvero.
I clienti devono avere la possibilità di costruire e ritagliare i propri percorsi personalizzati di acquisto: in questo modo è possibile costruire al meglio la brand loyalty, con un percorso breve ed efficace adatto alle esigenze di una startup.

Per leggere il post originale di Paige O’Neill: http://www.economistgroup.com/leanback/consumers/sdl-research-how-to-build-customer-loyalty/

Napoli, 16/12/2014

Il Bullseye Framework: un processo in cinque fasi per aiutare le startup a generare Traction

Gabriel Weinberg e Justin Mares sono gli autori di un interessante manuale dedicato alle startup dal titolo “Traction – A Startup Guide to Getting Customers”: il testo è incentrato sulla presentazione del “Bullseye Framework”, un processo in cinque fasi che viene utilizzato dalle aziende di successo per generare traction, ed è quindi utile ai founders di startup che sono in cerca dei canali di marketing più utili a portare l’azienda verso la fase di crescita successiva.

Il tema della Traction è di rilevanza centrale per una startup, ma in molti casi viene trascurato dai founders: spesso, i team sono concentrati per mesi a lavorare sul prodotto, per poi iniziare a pensare alla Traction solo quando si trovano ad affrontare il lancio sul mercato. La Traction andrebbe invece curata in tutte le fasi di vita dell’azienda: dovrebbe essere uno sforzo continuo, focalizzato sulla ricerca dei migliori canali di acquisizione dei clienti.

Nella maggioranza dei casi, invece, le startup si approcciano alla questione in maniera casuale e non strutturata: il Bullseye Framework è utile in questo caso perché permette di seguire un processo sistematico di approccio al marketing e, in particolare, alla strategia di distribuzione.

In un articolo pubblicato sul suo blog, Gabriel Weinberg ha offerto una panoramica del Bullseye Framework e di come un approccio di questo tipo possa essere di aiuto ai founders di una startup per generare Traction. Le premesse su cui nasce il Bullseye Framework sono essenzialmente tre:

1) In ogni fase di crescita, esiste solitamente un unico canale di acquisizione clienti (traction vertical) sul quale si basa l’intera strategia della startup. Questa è una conseguenza del fatto che generare Traction è generalmente un “power law problem” (un problema basato sulla legge di potenza, ossia una relazione funzionale tra due quantità nella quale una quantità varia in maniera esponenziale al variare dell’altra).

2) Esistono circa venti differenti traction verticals che le startup possono adoperare nella propria strategia di crescita. E’ difficile prevedere quale di questi venti possibili canali di acquisizione clienti sia maggiormente adatto ad una certa startup: è però possibile (e consigliato dall’autore del post) fare delle ipotesi plausibili in merito, fermo restando le difficoltà ad individuare con certezza il canale giusto quando la startup inizia la fase di execution.

3) La maggior parte dei founders di startup ha maggiore familiarità e propensione ad utilizzare alcuni canali di acquisizione clienti, e scelgono questi ultimi in favore di altre traction verticals. Una delle conseguenze più evidenti di questa situazione è che la maggior parte delle startup si concentra su alcuni canali, lasciandone molti altri sottoutilizzati e trascurati.

Entrando nello specifico del Bullseye Framework, l’autore spiega innanzitutto che il processo si compone di cinque fasi e si basa sulla metafora del bersaglio (bullseye): il cerchio interno rappresenta le traction verticals più promettenti, diventando via via meno promettenti man mano che i cerchi si allontanano dal centro.

Entriamo adesso in una spiegazione più articolata delle cinque fasi:

FASE 1 – BRAINSTORMING

Si tratta di passare in rassegna ciascuno dei possibili canali di acquisizione clienti ed effettuare un brainstorming per capire come ogni canale si potrebbe utilizzare in maniera efficace nel momento storico specifico che la startup sta attraversando.

Questo primo step serve a contrastare i pregiudizi e costringe ad analizzare seriamente e meticolosamente ogni possibile traction vertical. Si tratta quindi di una fase che richiede tempi adeguati, ed è inoltre necessario possedere una certa conoscenza di ciascun canale per poter procedere ad una valutazione utile e coerente.
Una volta analizzati pro e contro di tutti i canali, si passa a mappare il mercato cercando di capire quali traction verticals utilizzano i concorrenti, in che modo e con quali risultati.
Infine, bisogna analizzare singolarmente i possibili percorsi ed eventuali test a basso costo che è possibile effettuare per ciascun canale di acquisizione.

La prima fase del Bullseye Framework è quella che richiede tempi più lunghi: secondo Weinberg può impegnare alcuni giorni o settimane.

FASE 2 – RANKING

Si costruisce il vero e proprio “bersaglio” suddividendo i canali di acquisizione clienti in tre colonne:

Colonna A (Inner Circle / Centro del bersaglio): quali traction verticals sembrano più promettenti in questo momento?

Colonna B (Promising / Cerchi intermedi): quali traction verticals potrebbero funzionare?

Colonna C (Long-shot / Cerchi esterni): quali traction verticals sembrano avere minori possibilità di successo al momento?

FASE 3 – PRIORITIZING

In questa fase si stabiliscono le priorità: si torna ad osservare le tre colonne e si ripensa criticamente alle scelte effettuate. Il risultato di questa fase deve essere uno schema in cui si posizionano le prime tre traction verticals nella colonna A, sei canali nella colonna B e il resto nella colonna C.

FASE 4 – TESTING

I tre canali di acquisizione clienti posizionati nella colonna A rappresentano il centro del bersaglio: occorre iniziare una serie di test su queste tre traction verticals, avendo cura che le prove avvengano in parallelo.

FASE 5 – FOCUSING

Se una delle tre traction verticals del centro del bersaglio inizia a dare segni di early traction, significa che la startup ha trovato il canale giusto (per il momento): a questo punto, il consiglio dell’autore è quello di raddoppiare gli sforzi e le risorse su questo canale, cercando di ottenere i migliori risultati possibili in termini di Traction.

Se, invece, nessuna delle tre traction verticals testate sembra funzionare, occorre tornare alla fase 1 e ricominciare il processo, facendo tesoro delle informazioni e dell’esperienza.

In ogni caso, a prescindere che la startup scelga di utilizzare o meno il Bullseye Framework, è fondamentale approcciarsi alla Traction scegliendo un processo strutturato.

 

Per leggere il post originale di Gabriel Weinberg: http://www.gabrielweinberg.com/blog/2013/01/the-bullseye-framework.html

Napoli, 08/08/2014

Consigli alle startup: quando si tratta di partnership, la scelta più giusta è seguire la regola “Gli opposti si attraggono”

Chris Klündt è founder e presidente di StudyBlue, un’app dedicata al collaborative learning che consente alle persone di raccogliere informazioni per poter padroneggiare qualsiasi argomento: nata come un progetto accademico, è oggi un’azienda con oltre 5 milioni di utenti.
Klündt ha recentemente pubblicato un post su Entrepreneur dedicato alle startup e, nello specifico, tema della scelta di un partner.

Convenzionalmente si è portati a credere che un buon team sia composto da persone con personalità simili e competenze complementari: in generale, poi, le persone scelgono di avvicinarsi a chi è simile a loro, a persone di cui sentono di poter aver fiducia.

Ma una delle regole base dell’innovazione è quella di tenersi sempre al di fuori della propria “zona di comfort”: per questo, la scelta di un business partner per una startup deve ricadere, secondo Klündt, su qualcuno che riesca a sfidare continuamente e in maniera costruttiva le nostre opinioni, qualcuno che ci porti a ripensare le nostre decisioni. Il punto è che il partner dovrebbe essere qualcuno in grado di espandere la nostra vision, non di confermarla.

Ecco perchè, per una startup, vale la regola secondo la quale “gli opposti si attraggono”: scegliendo come partner qualcuno che sia completamente diverso da noi, è possibile creare quella che l’autore definisce una vera e propria forza della natura all’interno dell’azienda, che può rendere la startup abbastanza forte da affrontare le varie sfide osservando i fattori in gioco da angolazioni differenti.

L’autore parte dalla propria esperienza personale con StudyBlue per motivare la sua idea e analizza i fattori che reputa centrali per scegliere il partner giusto per una startup, basandosi sulla convinzione che dovrebbe essere totalmente differente da noi:

1) Secondo Klündt, troppo spesso i giovani startuppers (soprattutto nel settore tech) tendono a sopravvalutare le proprie potenzialità e sottovalutano quelle dei veterani del mercato. La stessa StudyBlue è nata a causa della frustazione di Klündt nel riscontrare la scarsità di offerta nel settore delle risorse educative: all’epoca era ancora un ingegnere alle prime armi impegnato negli studi al college. Pochi anni dopo, Klündt ha incontrato Becky Splitt: una mamma con 15 anni di esperienza nel settore tech con la quale aveva ben poco in comune.

Nonostante i due fossero così diversi da formare un team davvero improbabile, oggi Klündt ammette che la scelta di fare di Becky Splitt il CEO di StudyBlue è stata la svolta per il successo della sua startup. In qualità di founder, il giovane Klündt sapeva come creare un buon prodotto, ma non aveva l’esperienza necessaria per affrontare le sfide che il mercato poneva. E’ stata proprio Becky Splitt a trasformare StudyBlue in una startup di successo.

Quindi, Klündt conclude che un giovane founder alle prese con una startup tecnologica dovrebbe scegliere come partner una persona con anni di esperienza, in grado di affrontare i problemi che l’azienda incontra giorno dopo giorno sapendo di poter contare sulle competenze e la professionalità acquisita negli anni.

2) Altro aspetto fondamentale da tenere in considerazione secondo Klündt riguarda i concorrenti: scegliere un concorrente come partner può essere un’ottima strategia, in quanto significa unire le forze per sviluppare un progetto migliore, con maggiori potenzialità di crescita rispetto a due progetti concorrenti.

Un esempio di come questa strategia possa risultare vincente è Ministry of Supply, un brand che fonde moda e tecnologia nato dall’unione tra due progetti differenti che avrebbero potuto essere in concorrenza sul mercato: i tre founder hanno deciso di fondere le proprie tecnologie e competenze in un unico progetto, ottenendo una startup di successo.

3) A volte, accettare di essere in disaccordo può essere la chiave per raggiungere il successo: impegnarsi in una partnership con chi la pensa in maniera differente da noi stimola il confronto e la messa in discussione, producendo effetti positivi sulla startup.

Ne sono un esempio Matthew Bellows e Cashman Andrus, rispettivamente CEO e CTO di Yesware: il primo è il tipico venditore, un sognatore spiccatamente ottimista, mentre il secondo è il tipico tecnico, problem-solver orientato alla pratica e al realismo. Le loro personalità opposte sono proprio il motivo per cui hanno deciso di lavorare insieme.

Collaborare con chi ha una prospettiva differente significa ritrovarsi a discutere su qualsiasi argomento, ma queste accese discussioni portano alla fine a prendere decisioni migliori: questa è l’esperienza del team di Yesware, sales e-mail service che conta oggi oltre 450.000 utenti in tutto il mondo e che ha raccolto capitali per 20 milioni di dollari da fondi tra cui Google Ventures.

In conclusione, Klündt sostiene che la scelta di un executive partner con background e punti di vista differenti ha sicuramente alcuni svantaggi, ma i pro superano di gran lunga i contro: la startup potrà infatti contare su una leadership dinamica, in grado di osservare le cose da una prospettiva a tutto tondo sul prodotto e sul mercato. Inoltre, la giusta quantità di attriti è una delle basi per il successo.

Per leggere il post originale di Klündt: http://www.entrepreneur.com/article/235029

Napoli, 27/06/2014

Consigli alle startup: i passi per raggiungere la leadership nel mercato di riferimento

Per una startup di successo è fondamentale riuscire a raggiungere una buona posizione nel proprio mercato di riferimento: lo scopo finale dovrebbe essere quello di ricoprire la posizione da leader di mercato, riuscendo ad ottenere risultati migliori di quelli dei concorrenti.

Naturalmente il primo passo è che la startup riesca ad avere un buon prodotto da proporre: questo, però, rappresenta solo il “biglietto da visita” di una startup. Possono essere decine i concorrenti in grado di fare un buon prodotto, ecco perchè può essere utile individuare alcune caratteristiche e alcuni punti fondamentali per una startup che voglia conquistare la leadership sul mercato di riferimento.

I primi consigli utili sono tratti da un recente post pubblicato da StartupSmart con la firma di Amanda Jesnoewski (esperta di comunicazione e copywriting a VelocityMedia), che focalizza l’attenzione su tre aspetti essenziali per una startup che voglia essere leader di mercato, e non limitarsi semplicemente seguire i concorrenti: questi consigli possono aiutare i founder ad iniziare a costruire l’approccio giusto per raggiungere il successo con la propria startup.

1) Rimanere concentrati sui clienti, non sui concorrenti

Si tratta del modo migliore per far crescere il business ed espandere la quota di mercato di una startup: bisogna sempre preoccuparsi dei clienti, imparare a conoscerli meglio in modo da poter lavorare in maniera pertinente e mirata sul prodotto/servizio e sulle attività di marketing.

Ciò che consente ad una startup di raggiungere la leadership di mercato anziché continuare ad inseguire la concorrenza è scoprire le opportunità per differenziarsi, capire cosa vuole davvero il cliente e lavorare continuamente sull’innovazione e sul valore aggiunto da offrire.

Seguendo questo approccio, afferma Amanda Jesnoewski, saranno i concorrenti a doversi preoccupare di seguirvi.

2) Anticipare le esigenze e le tendenze

Secondo l’autrice un vero leader di mercato è colui che non si accontenta di soddisfare le esigenze attuali dei clienti, bensì è colui che lavora per scoprire ed anticipare le esigenze future.

Ciò si traduce nell’impegno a costruire modelli previsionali, ad analizzare eventuali trend e tendenze che si stanno formando, ad essere sempre aggiornati sulle nuove tecnologie che potranno avere un impatto nel proprio settore di riferimento. Ma soprattutto, significa rimanere in costante ascolto della clientela.

L’impegno a monitorare, scoprire e anticipare le tendenze future aumenta la possibilità della startup di raggiungere la leadership di mercato perché la mette in condizione di arrivare in anticipo rispetto ai concorrenti, che si troveranno invece costretti ad “inseguire”.

3) Giocare sui propri punti di forza

Ogni azienda ha i propri punti di forza: può trattarsi del know-how, del personale specializzato, dell’alta qualità di prodotti e servizi, della creatività e delle idee, del livello di servizi al cliente, del busget, etc.

Qualsiasi sia il punto di forza, la startup deve assicurarsi sempre di utilizzarlo adeguatamente per trarne il massimo vantaggio possibile: come spiegato dall’autrice del post, invece, spesso la tendenza dei team è quella di concentrarsi sui propri punti di debolezza o sui punti di forza dei concorrenti. Questo atteggiamento, però, non aiuta a costruire il vantaggio competitivo.

Oltre ai consigli appena elencati di Amanda Jesnoewski, il tema della leadership di mercato per le startup è stato affrontato anche da Ilya Pozin, startupper seriale che ha fondato la sua prima società a 17 anni, in un post pubblicato da Inc.com qualche tempo fa. Pozin propone una vera e propria scaletta composta da 9 step, destinata a startup che cercano di raggiungere la leadership nel proprio mercato di riferimento. I 9 step rappresentano altrettante domande cui la startup deve rispondere e riguardano fondamentalmente tre grandi aree di riferimento, corrispondenti a tre fasi del processo di crescita di una startup: Health (step 1 – 3), Growth (step 4 – 6) e Leadership (step 7 – 9).

1) L’azienda è redditizia?

Sembra una domanda scontata, ma è comunque un fattore critico: il team può avere passione e unità di intenti, ma se non ci sono profitti la startup non va da nessuna parte.

2) Siete in grado di generare vendite?

Le vendite, oltre ai profitti, rappresentano la colonna portante dell’azienda. Bisogna assicurarsi di generare un adeguato volume di vendite nel futuro.

3) Siete in grado di generare contatti?

Non importa se al momento non ne avete bisogno. Qualora si rivelasse necessario in futuro, sareste in grado di farlo?

4) I clienti sono soddisfatti?

Cosa direbbero i vostri clienti se qualcuno li intervistasse in questo momento? I clienti soddisfatti sono la base della solvibilità di un’impresa.

5) Avete formalizzato una strategia di vendita?

Occorre avere ben chiaro come si pensa di raggiungere ed acquisire nuovi clienti per il futuro: non è possibile pensare di attrarre la clientela senza un piano formale e preordinato.

6) In che modo vi differenziate?

La startup deve cercare, identificare e focalizzarsi sui propri fattori distintivi, sugli elementi che la differenziano dalla concorrenza.

7) La startup è innovativa?

Le aziende leader di mercato sono quelle che si impegnano per un’evoluzione costante, che abbracciano ogni giorno il cambiamento e non temono l’innovazione.

8) Avete una “sales culture”?

Si tratta dello “stile” con cui la startup affronta le vendite, il modo in cui si differenzia nel rapporto con la clientela rispetto ai concorrenti. Stabilire una vera e propria “cultura” in fatto di vendite significa garantire alla startup di differenziarsi rispetto alla concorrenza.

9) Sei un brand leader?

Una volta attraversati nel migliore dei modi gli 8 step precedenti, la startup dovrebbe essere sulla buona strada per realizzare la propria leadership di mercato. A questo punto i clienti dovrebbero conoscere ed apprezzare il marchio, e acquistare il prodotto anche se i prezzi sono superiori a quelli dei concorrenti. A questo punto l’azienda è brand leader, e le entrate sono tali da garantire la crescita del business anche per gli anni successivi.

FONTI:

Napoli, 23/06/2014

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